Un momento dell'incontro tra maggioranza e opposizione (Ansa)

Il focus

Non solo Meloni: tutti i tentativi (poco riusciti) di riformare la Costituzione

Francesco Bercic

Le commissioni bicamerali di Aldo Bozzi e di De Mita, il patto della crostata con D’Alema e il referendum di Matteo Renzi bocciato nel 2016. Un lungo filone di fallimenti e divisioni

Le difficoltà che sta incontrando la premier Giorgia Meloni nel tentativo di dialogo con le opposizioni attorno alle varie declinazioni di riforma costituzionale, dal premierato al presidenzialismo, non rappresentano una novità per il paese. Al di là degli elementi congiunturali, a pesare sulle spalle del governo è anzi tutto la storia italiana: una storia fatta di numerosi tentativi di modifica della Carta, tutti o quasi finiti nel vuoto. Ripercorrere la genesi e il corso degli sforzi politici che negli anni hanno provato a cambiare più o meno radicalmente l’impianto istituzionale dell’Italia, significa allora prendere consapevolezza degli ostacoli che chiunque si trova a fronteggiare in un simile proposito.

Fino al 1998, si pensava che la via maestra per intervenire sulla Costituzione fosse la creazione di una commissione bicamerale, che radunasse cioè al suo interno un egual numero di deputati e di senatori bipartisan. La premessa sottaciuta era infatti l’esigenza di trovare una formula che potesse incontrare trasversalmente il favore dell’intero arco parlamentare: in modo da garantire, così, un’unità di valori entro cui riconoscersi. Furono tre le commissioni istituite: tutte quante, per ragioni diverse, non riuscirono a superare il vaglio del voto parlamentare.

La prima, nel 1983, prese il nome del deputato Aldo Bozzi: al termine di cinquanta sedute, il testo preparato dalla commissione prevedeva la revisione di quarantaquattro articoli della Carta, lasciando tuttavia inalterato il sistema parlamentare. Si rivoluzionava invece l’amministrazione delle regioni, oltre ad ampi tratti dell’ordinamento giudiziario. Ma al momento di trascrivere tutto ciò in corrispettivi disegni di legge, i partiti non riuscirono a raggiungere un accordo.

Stesso destino per la bicamerale del 1992, presieduta prima da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti. In quel caso, a dover essere modificati erano ventidue articoli, su imitazione del modello statuale tedesco, con l’elezione del premier attraverso un voto del Parlamento. Questa volta, a bloccare i lavori fu la caduta dell’ultimo governo Andreotti, con Tangentopoli che riempiva le pagine dei giornali e la riforma che scivolava nel dimenticatoio.

L’ultima e probabilmente più famosa bicamerale vide a capo Massimo D’Alema e fu istituita nel 1997: al vertice del governo si trovava Romano Prodi. Il testo che venne poi discusso in Aula prevedeva, fra le altre, l’elezione diretta del capo dello stato, una legge elettorale maggioritaria a doppio turno e la separazione delle carriere tra giudici e pm, secondo il celebre “patto della crostata” che coinvolse, oltre a D’Alema, Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Franco Marini. Di lì a poche settimane saltò tutto, Forza Italia si svincolò e le relazioni fra i partiti si inasprirono al punto che, almeno per quella legislatura, non se ne parlò più. Oltre al progetto di riforma, ne uscì distrutta anche la fiducia nell’efficacia di una commissione bicamerale.

 

Constatato lo scoglio apparentemente insormontabile del dialogo extraparlamentare, si impose in tempi molto rapidi il metodo che, dai primi anni duemila a oggi, avrebbe consentito un maggiore interventismo a scapito della coralità dei tentativi precedenti. La commissione bicamerale venne presto derubricata come “la tomba di qualunque progetto di riforma”, secondo le parole rilasciate al Foglio da Luciano Violante, oggi presidente emerito della Camera. Di fatto, da allora le opposizioni non si interpellano più se non per confronti superficiali, con gli esecutivi che procedono autonomamente e passano, nel caso non raggiungano i due terzi in Parlamento, per l’esame del referendum, appellandosi all’articolo 138 della Carta. I numeri parlano chiaro: dieci delle diciassette leggi di modifica costituzionale attuate finora, sono state varate dal ’98 in poi. Una proporzione fatta soprattutto di piccole correzioni e non di stravolgimenti, ma che testimonia comunque un cambio di passo.

Eppure, non sempre – anzi, quasi mai – tale meccanismo è bastato per intaccare in misura sensibile l’assetto del sistema-Italia. Si contano due importanti eccezioni: la riforma del Titolo quinto nel 2001 – voluta dal governo Amato e approvata al referendum dal 64 per cento dei partecipanti – e il taglio al numero di parlamentari che, avviato dal governo Conte I, ricevette nel 2020 il 69 per cento di “sì”. A queste si aggiunge l’introduzione nella Carta del pareggio di bilancio sotto il governo tecnico di Mario Monti, passato senza la necessità di un riscontro popolare.

Dall’altro lato, ci sono i referendum del 2006 e del 2016 che, per la portata del loro contenuto, rappresentano un metro di paragone più idoneo con il contesto attuale.

Nella riforma del governo Berlusconi del 2006 era prevista la devoluzione di maggiori poteri alle regioni, la trasformazione del Senato in un organo federale e l’istituzione di un “premierato forte”, simile a quello di cui si discute oggi. Ma, arrivato al referendum svoltosi poco dopo le elezioni vinte da Romano Prodi, il progetto fu bocciato da 16 milioni di italiani, pari al 60 per cento dei votanti.

Anche la riforma del governo di Matteo Renzi – che puntava a superare il bicameralismo perfetto, eliminando al contempo le province e riscrivendo i rapporti tra stato e regioni – non riuscì a passare l’esame popolare. Il risultato fu analogo a quello di Berlusconi (59 per cento di contrari) con un’affluenza addirittura più alta, al 65 per cento.

Se le ambizioni di Giorgia Meloni siano condannate a spegnersi nello stesso fallimento, lo dirà il tempo. Quello che è certo, è che nei due più importanti precedenti né Berlusconi né Renzi sono riusciti ad attirare un consenso sufficientemente esteso da consentire una riforma strutturale e organica dello stato. Pagando il prezzo delle divisioni e dei veti incrociati, in un’aspirazione che per molti dovrebbe realizzarsi sotto il segno dell’unità.