Il Mes entro giugno. Meloni studia il calendario della Camera

Valerio Valentini

L'attendismo del governo provoca imbarazzi tra i parlamentari di FdI. Chiedere al capogruppo Foti, che accampa scuse di "coperture". Intanto a Bruxelles stanno perdendo la pazienza. Le tattiche di Fitto e Giorgetti. La premier nell'angolo

L’alibi era parso a tal punto fumoso che al dunque neppure chi l’ha avanzato se l’è sentita di difenderla davvero. E così Tommaso Foti, presidente dei deputati di FdI, incalzato dai capigruppo di opposizione ha allargato le braccia: “Non so, boh. Mi hanno detto di dir così”. Di dire, cioè, che la ratifica del Mes non poteva avvenire “per un problema di coperture”: di quei problemi, insomma, che insorgono quando non ci sono soldi a sufficienza nelle casse del Tesoro. E forse è stata l’onestà dell’ammissione di Foti a suggerire agli avversari di non inferire. “E’ chiaro che non sapeva come venirne fuori”, ha spiegato la dem Chiara Braga ai colleghi. Era il 2 maggio. E il colonnello meloniano aveva ordine di prendere tempo. Chissà se sapeva già che a Palazzo Chigi, intanto, una scadenza per il Mes l’avevano fissata: “Entro giugno”.

O meglio, questo suggerisce, e forse impone, il metronomo che scandisce i tempi a Montecitorio, se è vero che le opposizioni, trascorsi ormai i termini previsti dal regolamento, possono ora rivendicare che, nel calendario di giugno, al momento, è prevista la discussione delle due proposte di legge, avanzate dal Pd e dai renziani, che chiedono, né più né meno, la ratifica del Mes.  Programma “convenuto”, certo, non ancora definito, dai capigruppo. Ma è evidente che questa tattica esasperatamente dilatoria del governo inizia a essere difficile da gestire, nei lavori d’Aula: “Perché se le opposizioni puntano compatte su quella proposta, inserendola tra quelle che spettano loro per diritto, dovremo pur dire qualcosa”, si sfogano ai vertici di Forza Italia, lamentando la mancanza totale di indicazioni sul da farsi da parte di Giorgia Meloni.

Che poi, a ben vedere, sono gli stessi dubbi, gli stessi imbarazzi, che travagliano Giulio Tremonti, costretto com’è a inventarsene ogni volta una, nella commissione Esteri della Camera da lui presieduta, per rimandare la discussione sul Mes chiesta da Pd e renziani. “Non potete presentarci, come avete fatto l’ultima volta, una lista di audizioni lunga così, perché non è serio”, gli ha detto giorni fa Enzo Amendola, che con Tremonti ha un rapporto di franca dialettica. E insomma, se anche Antonio Tajani inizia a ritenere complicato congelare il dossier del Mes oltre l’estate, se anche a Palazzo Chigi si lasciano scappare che “entro giugno bisognerà capire cosa fare”, un motivo c’è.

E non è neppure difficile indovinare quale sia. Due giorni fa, e per l’ennesima volta, dall’Eurogruppo hanno rinnovato i solleciti all’Italia per procedere, finalmente, alla ratifica del nuovo trattato. “Così Roma blocca tutti gli altri”, s’è lamentato lo stesso Pierre Gramegna, il presidente del Mes. E dunque, il 15 maggio prossimo, all’Eurogruppo, sarà inevitabile la nuova strigliata da parte del presidente Paschal Donohoe, il quale già in occasione dell’ultimo vertice dei ministri delle Finanze di aprile aveva ricordato, con toni gravi, che la ratifica del Mes da parte dell’Italia era “urgente”, anche per offrire, a tutti gli altri 19 paesi aderenti, una rete di sicurezza per eventuali crisi bancarie. E del resto Valdis Dombrovskis, il vicepresidente della Commissione, interpellato sul tema, ripete che “non abbiamo novità dal governo italiano: le ultime informazioni ci dicevano che Roma non era contraria alla ratifica, dopodiché non abbiamo avuto spiegazioni sul perché non si ratifichi, allora”.

Una spiegazione, forse, ai colleghi di governo hanno provato a darla Raffaele Fitto e Giancarlo Giorgetti, che sono i titolari del dossier. E il senso dell’attesa, a sentire loro, starebbe in un tatticismo che prevede di ratificare il Mes solo quando la discussione sulla riforma del Patto di stabilità sarà più avanzata. L’obiettivo, dunque, sarebbe quello di ottenere delle garanzie sul fatto che la cassa del Mes si trasformerà in un fondo a cui gli stati membri potranno attingere per finanziare spese ritenute strategiche dalla stessa Unione, come quelle per la Difesa, quelle per il cofinanziamento dei progetti di sviluppo e coesione, quelle per la transizione energetica. Che poi, in effetti, sono le stesse spese che, a turno, Guido Crosetto, Fitto e Giorgetti chiedono di scorporare dal computo del deficit nell’ambito del Patto di stabilità. In quest’ottica, dunque, il Mes si trasformerebbe da fondo che favorisce gli investimenti.

Questo, almeno, nelle speranze patriottiche. Che non tengono conto, tuttavia, di una posizione che è al momento condivisa da tutte le istituzioni europee coinvolte: e cioè che prima il nuovo Mes si ratifica, prima sarà possibile ridiscuterne le funzioni e le finalità. E’ proprio l’Italia, dunque, col suo inesausto tentennare, a sabotare le riforme che auspica. E forse per questo, da alti esponenti del Ppe a Bruxelles, i dirigenti di FI si sono sentiti ricordare che cercare di guadagnare potere negoziale utilizzando strumentalmente dei veti che bloccano l’intera Unione non solo non è intelligente, “ma non è neppure onorevole per un paese come l’Italia”. E pure di questo, a giugno, bisognerà parlare in Parlamento.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.