Nomine, ma con juicio. Meloni cambia poco sulle partecipate, e Salvini sbuffa

La capa del governo stretta tra il furore dei suoi e la cautela di Bruxelles e del Quirinale

Valerio Valentini

La conferma di Descalzi blinda quasi tutti i vertici di Eni detetstati dalla Lega. Per Leonardo, la premier non cambia idea: Cingolani. La benedizione su Donnarumma. E così in tanti, nel Carroccio e in FI, ma pure in FdI, dicono: "Dovremmo osare di più".

Nella Lega la descrivono così, come “una che dovrebbe saltare, e però non salta”. Zavorrata da inquietudini, da incertezze? Chissà. Ci sta pure che questa sia una descrizione utile alla narrazione salviniana: la premier troppo pavida. Però forse qualche tentennamento deve averlo davvero, Giorgia Meloni, se perfino un dirigente del suo partito si lascia scappare sbuffi d’insofferenza: “Se perdiamo questa occasione per cambiare le cose, resteremo imbrigliati pure stavolta”. Eccola, la capa del governo alla vigilia delle grandi nomine di stato.

La scadenza, in verità, pare fissata a martedì. Sarà quello il giorno del giudizio, quello degli annunci ufficiali, che dovranno far seguito a un rendez-vous finale, tra i pochi ammessi nel sancta sanctorum di Palazzo Chigi – la premier, i suoi due vice, il fido Giovanbattista Fazzolari, il ministro dell’Economia –  dopo la riunione preliminare di ieri, a margine del Cdm. E già questo, in effetti, dice di una certa tribolazione, forse non del tutto preventivata, se è vero che inizialmente si era convinti di dover chiudere la pratica delle nomine all’ultima settimana di marzo, poi si era rimandato tutto a inizio aprile,  e quindi ancora più in là, a metà mese. Poco male, vabbè. Se non per il fatto che nell’attesa, come sempre succede, le tensioni si esasperano. E dunque il deputato della Lega, uno che conosce bene Matteo Salvini, che ha già ricoperto incarichi di governo, gli attriti in corso li spiega così: “Siamo arrivati dicendo che contro di noi avevamo un intero sistema di potere targato Pd, il deep state, il machete eccetera. Poi, al dunque, confermiamo tre quarti di quelle figure?”.

L’Eni,  per certi versi, è la più emblematica delle vicende. “Nel senso che – convengono anche in Forza Italia –  non ci si è neppure provato, a mettere in discussione gli equilibri”. E non ci si riferisce, beninteso, a Claudio Descalzi. In coscienza nessuno se la sentirebbe di dire che era possibile rimuoverlo. “Ma neppure dovevamo darla per acquisita fin dall’inizio, la sua permanenza”, insistono gli azzurri, convinti che l’aver ceduto subito ha spinto l’ad a pretendere, o forse soltanto  a considerare naturale, che “se la mia riconferma è il riconoscimento di un buon operato, allora – sarebbe questo il suo ragionamento  – questi meriti vanno condivisi con tutta la squadra”. Il che, nell’ottica delle nomine, significa dare concretezza a un’ipotesi che per Salvini è fumo negli occhi: e cioè la blindatura, lassù in cima alla catena di comando, di Claudio Granata, oltre a quella di Lapo Pistelli. Insomma “tutta una catena di affetti”, per dirla col Sassaroli di “Amici miei”, che è poi anche quella che ha portato un “uomo Eni” come Mario Sechi dalla direzione dell’Agi alla tolda di comando della comunicazione di Palazzo Chigi.

Poi c’è Leonardo. E anche qui, stessa musica. “Ma puoi farti venire dei ripensamenti sulla rimozione di Alessandro Profumo – prosegue, saccente, il colonnello salviniano – perché ti chiamano gli amici americani, amici israeliani, amici del Quirinale, amici di Gentiloni? Ma non te lo aspetti che quello smuove mari e monti, per restare?”. Ce l’ha con Meloni, ovvio, il leghista. La quale però, a dire il vero, alla riconferma di Profumo non pare averci mai davvero pensato. E’ vero però che non sembra essersi mossa, mai, dal suo convincimento iniziale: Roberto Cingolani. E questo nonostante in parecchi, e tra questi anche Giancarlo Giorgetti e Guido Crosetto, suggeriscano soluzioni alternative, come quel Lorenzo Mariani,  capo di Mbda, o comunque una personalità  del settore. Ed è una fermezza, quella di Meloni, che pure a Via della Scrofa fa alzare  qualche sopracciglio ai più alti responsabili di partito, pure loro convinti – ma loro lo dicono sibilando, che nella falange patriota i dissensi tutt’al più si sussurrano – che sarebbe il caso di  essere “più di rottura, come lo fu Renzi nel 2014”. Lo dicono perché, a quanto pare, anche con Stefano Antonio Donnarumma, a dispetto delle sue presunte appartenenze “demogrilline”, Meloni è molto ben disposta per una sua promozione al vertice dell’Enel. E forse a quel punto, oltre all’addio di Francesco Starace, l’unico che potrebbe ballare, tra i grandi nomi in corsa, sarebbe Matteo Del Fante specie se, come pare, il parere di Giorgetti su Poste sarà decisivo.

“Dunque tutto questo, per così poco?”, insistono nella Lega. Col tono, beninteso, di chi vuole insegnare a stare al mondo a una Meloni che pare saperci stare benissimo. Però forse davvero, a vederla in controluce, la premier sembra dover gestire fino in fondo questa partita delle nomine così come  tutta la sua azione di governo s’è andata caratterizzando: e cioè costretta lì nel mezzo, tra l’ansia di rassicurare il mondo da cui si sente soppesata, e dunque l’Europa, e dunque il Quirinale, e dunque i mercati, e le pretese, il furore di cambiamento, della sua maggioranza e del suo stesso partito. Trovare l’equilibrio: questa è la sfida. Anche a costo di scontentare un po’ tutti.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.