Il trionfo di Fedriga esalta Salvini, che prova a guardare Meloni dall'alto in basso. La sfida a destra

Valerio Valentini

La Lega davanti a FdI in Friuli, ed è una notizia. La lista del presidente pesca ovunque, e il capo del Carroccio se la annette. Ansia da prestazione sovranista, certo. Ma anche il senso di una competizione tra la premier e il suo vice. A sinistra, il nulla o quasi

Finisce così: che il peggiore degli amici di lui, che è però anche il preferito degli avversari di lei, scombina i piani di entrambi. E lui, cioè Salvini, può dunque riguadagnare baldanza proprio grazie all’unico che forse, dentro la Lega, aveva pensato davvero di fargli la pelle. E lei, cioè Meloni, che così a lungo ha coltivato con “Max” rapporti di buon vicinato strategico, ora si ritrova a dover forse attribuire a lui la colpa della prima battuta d’arresto di FdI.

Certo, “ad avercene di battute d’arresto così”. A Via della Scrofa non faticano a trovare le ragioni per essere ottimisti. O quantomeno, per mostrarsi tali. Cinque anni fa, alle regionali del Friuli Venezia Giulia, la Fiamma faceva il 5 per cento appena, e al trionfo di Fedriga I Giorgia Meloni partecipava così, quasi da imbucata, relegata com’era alla sesta posizione di lista. Ora quei 23 mila voti si triplicano, stando alle proiezioni che vedono FdI salire fino al 18 per cento, quando lo spoglio è ormai quasi ultimato. Bene, dunque, anche perché il risultato si rifletterà pure sulla giunta: era uno solo, finora, l’assessore meloniano, e i patrioti già ne rivendicano almeno quattro. Bene, sì, ma non benissimo.

E il senso di questa insoddisfazione malcelata sta tutto nella competizione interna alla destra. La Lega, ed è una cosa che in questo 2023 fa notizia, sta davanti a FdI. Non era successo in Lombardia, meno di un mese fa, dove Meloni aveva staccato Salvini di quasi dieci punti. Non era affatto previsto che succedesse qui. Non lo era a maggior ragione dopo lo smacco delle politiche, quando il Carroccio aveva fatto un terzo del 30 per cento della falange patriota. Roba mai vista. 

E invece ecco il dato che non ti aspetti. La Lega che tiene testa a FdI, che la supera, addirittura, sia pur per questione di decimali. Ma pure questi servono a galvanizzare la pattuglia leghista. Se il ministro dei Trasporti cercava un segnale, una certificazione della bontà della sua condotta, della sua tattica da vicepremier mezzo operoso mezzo dissenziente, l’ha trovata. “Risultato straordinario, premiato il buon governo della Lega”, esultano dal suo quartier generale. La linea resta dunque la stessa: lasciare che a gestire le rogne più scomode sia Meloni, evitando polemiche e anzi costringendosi in un silenzio un poco compiaciuto, quello di chi vede l’alleata annaspare dopo che per anni era stata lei, a godersi la pacchia dell’opposizione. E nel frattempo, reclamare il proprio spazio d’azione – i ponti da fare, le strade da sbloccare, tutta una fregola da ingegnere mancato – e presidiarlo, quasi che non esistesse il Pnrr, il Mes, l’inflazione, i migranti. A quello ci pensi lei, la premier. Io ho il mio bel Codice degli appalti da lucidare. 

Ovvio, molto di questo strano risultato lo si deve a Fedriga. Strattonato, dagli uni e dagli altri, per interpretare il responso dell’urna. In FdI fanno notare, non senza ragioni, che quel 17 per cento della lista Fedriga – una lista che cinque anni fa Salvini aveva proibito al suo candidato di allestire davvero – ha scombussolato tutto, ha drenato molto voto in uscita dal Carroccio che si sarebbe altrimenti riversato sulla Fiamma. E non solo. Perché con la sua lista il presidente riconfermato con plebiscito – 64 per cento – ha pescato ovunque: schierava ex deputati grillini, come Sabrina De Carlo, e perfino Carlo Bolzonello, fratello di quel Sergio che cinque anni fa fu il suo sfidante per il centrosinistra.

Massimiliano pigliatutto. E però Salvini contorce quest’evidenza e ne offre un’altra, pure questa valida a suo modo: e cioè che quel 17 per cento di Fedriga andrebbe sommato al 18 per cento della Lega, che dunque finirebbe addirittura per ritoccare al rialzo il 34 per cento del 2018. Sofismi, ovvio, che dicono però di una sfida reale, dentro la destra. Tanto più che per Meloni, e a lungo, Fedriga è stato il più vicino dei leghisti, nei tempi in cui la Lega era assai lontana da Meloni. Di più: era “il più sveglio”, era quello che “se la Lega la prendesse lui, sai che spasso”. E Fedriga c’ha pensato davvero: dall’azzardo del regicidio s’è fatto davvero tentare, è stato l’unico a pensarci davvero, quando Giorgetti e Zaia si limitavano a mugugnare a modo loro, masticando rabbia e inconcludenza. Questo trionfo sana anche quella frattura, almeno per ora. 

E illumina, poi, pure le inconsistenze di tutti gli altri. Ché se così a lungo ci si può soffermare sulle subordinate della sfida interna alla destra sovranista, è perché fuori da quel recinto c’è il nulla, o quasi. Il Pd soffre il mancato slancio della svolta di Elly Schlein e pure un’affluenza bassa assai (45 per cento): si ferma al 17 per cento, un punto in meno delle politiche. Il M5s si dissolve: 2,5 per cento. Il Terzo polo sta poco più su, ma comunque non abbastanza per evitare l’onta di finire dietro alla lista dei No Vax di Giorgia Tripoli. A pensarci da qui, tocca davvero sperare che Meloni e Salvini s’azzuffino. Sennò, sai che noia.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.