Fazzolari e l'"omino della Cia". Gli Usa non la prendono bene. E occhio al Copasir

Valerio Valentini

Le parole del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio infastidiscono l'ambasciata americana. L'imbarazzo di Montovano, i rapporti di Meloni con l'Agenzia di intelligence statunitense. E intanto, al Comitato parlamentare sui servizi segreti, si discute del "caso Donzelli". Il rischio di "icnomunicabilità" con l'intelligence

Sarà stato senz’altro stato un inciampo involontario, il cedimento guascone e innocente al più comune dei modi di dire. Come l’omino del gelato, l’omino di pan di zucchero o quello Michelin. E però all’Ambasciata americana, che sia per scarsa confidenza con l’idioma colloquiale o per permalosità yankee, non l’hanno presa proprio a ridere. C’è che forse, pare, quelle allusioni fatte coram populo, da parte di Giovanbattista Fazzolari, di un “omino della Cia”, loro ci hanno visto un riferimento niente affatto vago al capo centro dell’Agenzia a Roma, insomma a uno dei vertici dei servizi segreti statunitensi in terrà italica, uno che in effetti alto di statura non è e che effettivamente, comme il faut, con gli uffici di Palazzo Chigi ha una certa consuetudine. E si sono risentiti. Non tanto per questioni di fisiognomica, sia chiaro. Il punto è che l’identità dei dirigenti dell’Agenzia è bene che resti il più riservata possibile. E se pure non c’è da scandalizzarsi, anzi, che Giorgia Meloni o i suoi più stretti collaboratori abbiano contatti coi servizi di paesi amici, sarebbe grave se, sia pure in modo indiretto, si rivelassero  possibili indizi su chi siano le persone che fisicamente tengono questi contatti. 

Insomma nessuno si sarebbe atteso che un bel giorno Gianni Letta, o Gianni De Gennaro, passeggiando per Piazza Colonna, davanti ai giornalisti, raccontassero dei loro colloqui “con lo spilungone della Cia”, quando a essere capo centro dell’Agenzia americana a Roma, ma nessuno all’epoca lo sapeva, era quel Robert Gorelick a cui certo non difettano i centimetri. E invece il sottosegretario Fazzolari, martedì, parlando con Simone Canettieri ha riferito a questo giornale che sì, le uscite scomposte di Berlusconi su Putin e l’Ucrina non sono un problema perché anzi rafforzano la leadership di Meloni “agli occhi degli Usa, del deep state, dell’omino della Cia che non hanno altri interlocutori affidabili al di fuori di lei”. E tanto è bastato, ovviamente, perché anche dentro palazzo Chigi qualcuno strabuzzasse gli occhi. “Lo ha detto davvero?”. Certo Alfredo Mantovano, che ha la delega ai Servizi, non deve aver gradito. Antonio Tajani, ministro degli Esteri con una certa sapienza diplomatica, raccontano che anche lui abbia sobbalzato. “Una roba molto improvvida, molto”, commentava intanto, in Transatlantico, il leghista Stefano Candiani. 

Eccesso di baldanza, si dirà. Peccato d’incontinenza verbale. E ci sta. Ma è un peccato che alimenta altri sospetti, altre tensioni, che si scaricano sul Copasir. E c’è un motivo se Lorenzo Guerini, che del Comitato parlamentare sui servizi segreti è presidente, ha segnalato a esponenti del governo che esiste la necessità di non compromettere, né complicare, le relazioni tra il comparto dell’intelligence e gli organi politici che devono sorvegliarne l’operato. Troppo evidente, e percepita non solo dall’ex ministro della Difesa, è stata la sensazione che, nel corso degli anni, si sia andato creando come un intercapedine d’incomunicabilità tra le agenzie dei servizi e il Copasir. E certo, le vicende della scorsa legislatura non hanno contributo a facilitare questi rapporti. Prima il mezzo pastrocchio di Giuseppe Conte sul Russiagate, gli incontri tra William Barr e Gennaro Vecchione con le polemiche politiche che ne sono conseguite; poi la baruffa  per accaparrarsi la presidenza del Comitato tra il leghista Raffaele Volpi e il meloniano Adolfo Urso. Insomma, si sperava che il nuovo corso segnasse, come del resto anche il Quirinale auspica, un ritorno a un galateo più tradizionale. E invece il fattaccio di Andrea Delmastro e Giovanni Donzelli rischia di complicare di nuovo le cose. Nel senso che, ed è un giudizio abbastanza trasversale ai partiti, ai vertici dell’intelligence non vedevano l’ora di trovare pretesti per poter giustificare certi loro silenzi, certe loro reticenze. E certo Donzelli ha chiarito che nulla c’entra la sua attività di vicepresidente del Copasir con la rivelazione delle note riservate del Dap su Alfredo Cospito. Ma può, una vicenda di palese fuga di notizie – anche al netto di eventuali complicanze giudiziarie connesse all’indagine a carico di Delmastro – non investire l’autorevolezza del vicepresidente del Copasir? Il Pd ha offerto una via d’uscita agevole, a Donzelli: un’autosospensione in attesa di ulteriori chiarimenti. Lui ha ignorato la proposta, e alle riunioni del Copasir continua a presentarsi come se nulla fosse, convinto che gli imbarazzi dei primi giorni s’andranno dissipando. E del resto Meloni ne ha benedetto la permanenza: “Le dimissioni sarebbero un’ammissione di colpa. E non ce lo possiamo permettere”.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.