L'Ucraina tra Meloni e il Cav., la tela di Biden, le minacce del voto. Il fronte di Kyiv e quello del governo

Valerio Valentini

La premier teme la convergenza filoputiniana di Berlusconi e Salvini, e prova ad accelerare il suo viaggio da Zelensky. Gli sbuffi di Tajani, costretto a difendere l'indifendibile. Il pranzo al Quirinale con Crosetto. I nuovi invii di armi e il nodo dell'addestramento delle truppe. La capa della destra rinnova la linea, e rinnova l'avvertimento: "Questo esecutivo o è atlantista o non vale la pena che duri"

Per certi versi, c’è perfino chi ne gioisce. Sarà l’euforia delle urne, sarà la baldanza patriottica, ma sta di fatto che quando, nella calca del comitato elettorale di Francesco Rocca, Giovanni Donzelli si lascia andare a un commento sugli spropositi filoputinisti del Cav., lo fa col tono di chi si toglie i sassi dalle scarpe. “E meno male che erano loro quelli che volevano insegnarci a stare al mondo”. Insomma, il supposto tutoraggio da parte di FI, di quelli che “garantiscono per la tenuta euroatlantica del governo”, i Fratelli d’Italia se lo scrollano di dosso quasi con sollievo. “Siamo più atlantisti di Nemo”, sorride Francesco Lollobrigida. Mostrando, con ciò, solo la faccia spavalda di una medaglia che vede però, sul suo retro, il volto tribolato di Giorgia Meloni.

E non è solo questione di febbre. C’è che per la premier la faccenda ucraina si prolunga sul suo avvenire come un’ombra d’ansietà: non perché lei vacilli rispetto ai suoi propositi, sempre tetragona com’è, ma  perché teme ci sia chi, proprio nel centrodestra, quei propositi voglia insidiarli credendo così di recuperare consenso. “Speculano sulla paura, e più che sulla paura, sulla stanchezza”, diceva, alla vigilia del fine settimana elettorale, un ministro meloniano. Ce l’aveva con le parole di Roberto Calderoli, sui suoi distinguo un po’ ipocriti sulle armi  da spedire a Kyiv. Poche ore dopo, l’invettiva di Berlusconi nei confronti di Zelensky confermava i timori. Meloni sa che sarà lunga, ancora. E teme che il perdurare della guerra fiacchi la già traballante convinzione di un bel pezzo di elettorato di destra. “Se poi c’è chi, pure tra i nostri, soffia su questa insofferenza…”, sbuffano a Palazzo Chigi. 

Insomma c’è un motivo se Guido Crosetto, nell’illustrare al Copasir il contenuto del sesto decreto di aiuti a Kyiv, a fine gennaio, si è soffermato sulla necessità, tutta politica, di mantenere la barra dritta a dispetto delle scaramucce di maniera. L’invio dell’artiglieria antiaerea Samp/T, già previsto e da definire con un prossimo provvedimento, è concordato coi francesi: non si torna indietro. L’impegno è di inviare una batteria ciascuno, l’Italia ha scelto quella finora utilizzata per l’addestramento dei nostri militari. Andrà corredata dei dispositivi radar necessari, mentre i razzi in dotazione – gli Aster – sono stati già sottoposti a revisione. Non basterà. Perché, stando a quanto segnalato  dall’intelligence americana, tra fine marzo e inizio aprile la nuova offensiva russa entrerà nel vivo: per allora,  le ultime forniture militari a Kyiv dovranno essere operative. Significa occuparsi anche dall’addestramento dei militari di Zelensky. L’Ue ne formerà 15 mila, con attività condotte in parte nei vari paesi, in parte in Polonia. La Francia ha già mobilitato 150 esercitatori per istruire  2 mila ucraini. L’Italia non potrà essere da meno. Anche perché sui carri armati il  contributo di Roma sarà nullo, visto  lo stato  comatoso dei Lince; quanto ai jet, per ora c’è ben poco di concreto. Il che, però, impone di non deflettere  sul resto. L’insistenza con cui Meloni sollecita i suoi uffici diplomatici per allestire il viaggio a Kyiv  è, a suo modo, un segnale di questa ansia.

Quanto a Berlusconi, in pochi, in effetti, ci vedono chissà quale calcolo nelle sue esternazioni. Antonio Tajani, già in passato, aveva suggerito ai colleghi ministri meloniani di deporre ogni retropensiero. “Quello che dice su Zelensky e su Putin è quello che pensa, tutto qui”. Il che, forse, pone un’incognita perfino maggiore sulla tenuta della linea. Anche perché, nelle riunioni riservate, il Cav. si lascia andare a giudizi ben più violenti, sul presidente ucraino: “criminale di guerra”, “uno che manda il suo popolo al massacro”, e di più ancora, e di peggio. E su questo filo ad alta tensione corre non solo il destino del ministro degli Esteri – costretto ogni volta a rassicurare i vertici del Ppe e le cancellerie europee, e ogni volta pressato dai responsabili di FdI perché si distingua dal suo leader di partito, col corredo di sfoghi personali che fatalmente ne consegue – ma anche Meloni stessa. La quale, certo, può contare sul sostegno diplomatico del Quirinale, e non è poco, come hanno inteso anche Guido Corsetto e lo stesso Tajani, ieri a pranzo con Sergio Mattarella insieme all’emiro del Qatar. E si è sentita rassicurata anche dalle parole di conforto che Lollobrigida le ha riferito dopo aver incontrato il facente funzioni dell’Ambasciata americana al ministero dell’Agricoltura, dieci giorni fa: ma sa bene che molta di quella fiducia, tra un’Amministrazione democratica che certo ne avrebbe di ragioni ideologiche per osteggiare un governo di estrema destra, poggia sul mantenimento degli impegni nel sostegno all’Ucraina. 

Ed ecco perché, all’ipotesi che questo rinnovato putinismo arcoriano possa a sua volta rinfocolare quello mai sopito di Via Bellerio, Meloni pare che non contempli altro scenario che quello di mandare tutto all’aria: “L’ho già detto che questo governo ha senso solo in una chiara ottica atlantica”. L’avvertimento è sempre lì.
 

Di più su questi argomenti:
  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.