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Pd blues

Se persino Zingaretti trova il congresso “soporifero”, come si arriva alle primarie?

Marianna Rizzini

Dopo la sconfitta elettorale e le montagne ghiacciate dell’opposizione, sui dem sono piovuti anche i rimbrotti del padre nobile Romano Prodi. E ora è arrivato il colpo di grazia sotto forma di dibattito sul nome

Non bastano le vallate tristi della sconfitta elettorale e le montagne ghiacciate dell’opposizione. Sul povero Pd, per giunta impantanato lungo il sentiero precongressuale. sono piovuti anche i rimbrotti del padre nobile Romano Prodi: “Sto seguendo con attenzione. Finora sono state più schermaglie che dibattiti sui contenuti. Il problema grosso non è come va a finire il congresso ma se chi vince ha la forza sufficiente per rinnovare”. E non basta. Dove finisce Prodi iniziano infatti le paginate di questo e quel deputato, senatore, ex ministro, saggio, osservatore, sondaggista, fuoriuscito, figliol prodigo, sostenitore illustre, scrittore, professore in vena di consigli: la sinistra deve fare così, i dem devono fare cosà, abbiamo sbagliato qui e abbiamo sbagliato là. Insomma, se non è noia e sbadiglio ci si va molto vicini.

 

Sarà per questo che persino l’ex segretario pd Nicola Zingaretti, già governatore del Lazio, ora deputato, aggirandosi per il Transatlantico, l’altro giorno non ha resistito: soporifero. Così ha definito il congresso, soporifero, paragonando naturalmente il Pd attuale al Pd più energico dei tempi suoi, quando, in vista delle primarie, ricordava Zingaretti, c’era quantomeno Matteo Renzi a scatenargli contro Roberto Giachetti, e c’era l’onda lunga delle piazze piene, e c’erano più di un milione e mezzo di persone nei gazebo. Fatto sta che – vuoi per mancanza di verve della campagna congressuale vuoi per l’amarcord verso i bei giorni che furono – l’ex segretario è apparso abbastanza titubante a schierarsi con tutto se stesso e a scomodarsi lancia in resta per la candidata alla carica di segretario, per cui pure ha propensione (Elly Schlein). E così come lo sente Zingaretti, il peso congressuale, lo avvertono non pochi dirigenti: “Quasi quasi sembra più contento l’esule rientrante Pierluigi Bersani”, commentava ieri con sardonica rassegnazione un parlamentare pd, dopo aver visto l’ex segretario, a “Otto e mezzo”, su La7, intimare, con il tono del docente agli esaminandi: “I candidati dicano come intendono mandare avanti la Costituente”.

 

Ed ecco che si apre il vero baratro davanti agli occhi stanchi di attivisti, funzionari e dirigenti, estenuati dal mese trascorso a parlare della natura degli statuti – vecchio e nuovo – e del grado di ordoliberismo presente nei medesimi, fino al giorno in cui (sabato scorso) il segretario uscente Enrico Letta quantomeno ha svegliato gli astanti alludendo, davanti all’Assemblea nazionale, alle “amarezze, ingenerosità e ingratitudini” da lui subite mentre qualcuno tentava di “sostituire il Pd”, colpo sventato da Letta stesso, diceva Letta. E non c’è foglio e rivista di area, da MicroMega al Domani, dove i giorni non vedano inanellarsi analisi e appelli sulla morte della sinistra, al cui capezzale pare neanche lo si voglia, il Pd.

 

Ce n’era già abbastanza per deprimersi, prima e dopo l’Assemblea, fatto sta che è arrivato anche il colpo di grazia ai combattenti e candidati, stavolta sotto forma di dibattito sul nome: “Vorrei si chiamasse Partito del Lavoro”, ha detto l’ex ministro Andrea Orlando, aggiungendo anche, come corollario, la constatazione “che il nome non è questione di forma ma di sostanza”. E il sindaco di Bologna Matteo Lepore, cercando di tirare su il morale con quella che non a tutti, sui social, è apparsa una battuta, proponeva l’abbreviazione: Padel. Non è finita qui: qualcuno, addirittura, vorrebbe togliere al partito proprio tutto, chiamandolo, con definitiva consegna nelle mani di Giuseppe Conte, nientemeno che “movimento”. Come arrivare di questo passo al 26 febbraio, giorno delle primarie?, si domandano sconfortati gli interessati, senza trovare, per il momento, alcun antidoto alla generale abulia.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.