Foto di Claudio Peri, via Ansa 

verso la costituente

Per il Pd cambiare nome è l'ultimo dei finti problemi

Redazione

"Se dev'essere un atto di cosmesi non ha senso", dice Lepore. Una nuova etichetta per il partito, così come il manifesto dei valori, avrebbe dovuto rilanciare una discussione identitaria mai avviata. E Schlein rinuncia: "Ora rinominare non è fondamentale, se non cambiano le facce"

Et Pd nudo tenemus, dunque. Perfino sul nome, nulla di fatto. E sì che quella – la questione di un eventuale nuovo corso del Pd, da ribattezzare "Partito del Lavoro" – sembrava davvero l'ultima, forse l'unica, questione che aveva acceso dibattiti e polemiche, un minimo di vitalità, negli ultimi giorno di questo stanco congresso democratico. E invece, nulla. Anzi. Per paradossale che paia, a liquidare la discussione è stata proprio colei che, secondo i suoi stessi suggeritori, da questa baruffa nominalistica avrebbe potuto trarre maggior vantaggio. "Non è fondamentale cambiare nome se non cambiano le facce, il metodo e una visione comprensibile", ha detto Schlein ieri, durante il confronto tra i quattro candidati segretari. Contrordine, compagni. Con buona pace non solo del sindaco di Bologna, Matteo Lepore, che è stato il primo a proporre il nuovo nome; ma anche di chi, come Beppe Provenzano e Andrea Orlando, quell'idea l'aveva rilanciata nell'intento di segnare una svolta laburista, neosocialista, del partito. 

E insomma anche quest'ultimo weekend, quello che doveva rappresentare uno snodo decisivo verso le primarie dem, è scivolato via abbastanza incolore.

Prima c'è stata l'Assemblea nazionale costituente e poi il primo faccia a faccia tra i quattro candidati. Qui l'unico punto che è parso dirimente è stato quello del ritorno dei vecchi dirigenti. Bersaniani sì, bersaniani no? Elly Schlein ha parlato di "ricongiungimento familiare". Stefano Bonaccini, gelido, ha risposto che gli interessa poco: "L'importante è che tornino i sette milioni di elettori che abbiamo perso".

Tranne che sulle facce, vecchie e nuove, però la discussione resta piatta. Sono tutti d'accordo su tutto: "Lavoreremo tutti insieme", e ancora "bisogna cambiare la classe dirigente". Sul nome, dunque, si arretra. Non è importante cambiarlo. D'altronde, come sottolinea il sindaco di Bologna Matteo Lepore su Repubblica, "Se diventa un'operazione di pura cosmesi non serve". Anche la rinominazione, nata come presupposto per dare inizio a un vero e proprio dibattito di sostanza, si è trasformata in un vizio di forma. L'idea, la prima, era stata lanciata dallo stesso Lepore: la proposta era Partito democratico e del lavoro. L'utilità era "provocare una discussione che desse un profilo più netto al partito", ritrattare, con serietà, il tema del lavoro, così com'era - sottolinea Lepore - proprio e fondante delle due culture originarie del Pd, quella cattolica e quella socialista. Da questo bisogno di ridiscutere la natura del partito si erano alzate le voci di Andrea Orlando e di Beppe Provenzano

Quest'ultimo aveva rilanciato la proposta del sindaco bolognese, parlando espressamente di un referendum per gli iscritti sul cambio del nome, "ma lo chiederemo al prossimo gruppo dirigente". Così il vicesegretario del Pd, che non ha mai celato di trovarsi molto in accordo con Schlein, aveva provato a scompaginare le carte all'alba della costituente. La risposta della candidata non si era fatta attendere: "È sicuramente un tema che può essere sottoposto agli iscritti anche se in questo momento questo congresso ci deve servire innanzitutto a mettere al centro idee, contenuti e una visione chiara, coraggiosa", aveva dichiarato. 

 

Sotto al tappeto degli annunci e delle proposte, delle risposte più o meno accomodanti, resta un dibattito che non parte. Il nome si rivela perciò l'ennesimo dei finti problemi, a celare lo strato di equilibri e disequilibri interni che non appare fondato sulla politica in quanto ideale. Maggiore, invece, è la pressione sul dialogo litigioso e rigorosamente interno al partito, che si è vista anche nel faticoso lavoro di elaborazione del nuovo Manifesto dei valori. 52 ore di discussioni e 87 "saggi" hanno dibattuto del progetto, il quale certo non getta basi concrete per una nuova identità, in quanto si tratta solo di "un indirizzo, un preambolo". Dal Nazareno l'hanno detto, sottolineato e ripetuto.

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