L'intervista

Orlando: "Solo un Pd socialista può arginare Conte. La vocazione maggioritaria ormai ci fa male"

Valerio Valentini

Il congresso "coi tempi sbagliati". La scelta tra Bonaccini e Schlein e la necessità di ritrovare un'identità: "Rischiamo la fine dei socialisti francesi". La sfida del M5s: "Se noi smettiamo di fare la sinistra, loro la recitano. Ma è una tattica che a breve mostrerà la sua incoerenza". L'eredità di Draghi e l'opposizione al governo Meloni. Intervista all'ex ministro del Lavoro

Del partito, certo: di quello si era concordato di parlare, e di come “il Pd, per non tradire la sua funzione storica, per non finire travolto dagli eventi, non possa che darsi una prospettiva neosocialista, pur sapendo che qualcuno potrebbe non riconoscervisi più”. Prima, però, qualcosa bisogna pur dirla sulla legge di Bilancio. E sì che lui, Andrea Orlando, sarebbe tentato quasi di liquidarla con una sentenza brutale, la Finanziaria: “E’ classista”, scandisce, “è reazionaria”. 

Al che viene però da chiedersi, e da chiedergli, se in realtà, oltre a un armamentario da destra classica – gli sgravi fiscali concentrati quasi tutti sulle partite Iva, i congedi parentali ma solo alle donne, alle mamme – non ci sia, nelle scelte adottate da Giorgia Meloni, anche un approccio da destra sociale che un po’ dovrebbe interrogare il Pd. “Spero non vi riferiate alle pensioni minime, che verranno innalzate, stando ai primi calcoli, di una decina di euro al mese. Quanto al taglio del cuneo fiscale, anche sui redditi più bassi l’effetto è grosso modo lo stesso di quello prodotto da ciò che FdI definiva ‘mancette’ o ‘bonus’. Il tutto, a fronte di un intervento brutale sul Reddito di cittadinanza, che pretende di stabilire, a norma di decreto, chi ha diritto oppure no a essere considerato disoccupato involontario, visto che la riforma meloniana, per definire chi è occupabile, si affida a criteri oggettivamente vaghi, specie in una fase di crisi come questa e in regioni dove a non trovare lavoro è il 40 per cento di chi lo cerca. Dopodiché, mi pare che sull’urgenza più grave per i ceti svantaggiati, e cioè l’inflazione, in legge di Bilancio ci sia poco o nulla”.

E però la stretta sul Superbonus “perché regressivo”, e poi la tampon tax: non è che Meloni è riuscita a intervenire laddove voi siete mancati? “Anche per una questione statistica, era inevitabile che qualcuna  la imbroccassero. Sul Superbonus c’è una revisione che non mi trova pregiudizialmente contrario, anche se rischia di creare caos normativo. E accetto la critica per cui ha comportato uno sperpero eccessivo di risorse pubbliche. Ma non direi che è stata una misura che ha acuito le distanze tra ricchi e poveri. Anzi, la stessa Istat certifica oggi che l’impegno del Pd al governo nel Conte II e con Draghi ha prodotto una riduzione delle disuguaglianze sociali”.

Eppure anche Giuseppe Conte vi diceva che sul sociale si poteva fare di più. “E infatti il confronto sul salario minimo, e più in generale l’impegno sull’agenda sociale, durante il governo Draghi, era iniziato ben prima che lui sollecitasse l’esecutivo.  Si è fatta precipitare quell’esperienza di governo dicendo che non era  la piattaforma giusta per una svolta progressista. Dubito che l’aver regalato Palazzo Chigi alla Meloni renda quella svolta più probabile”.  Neppure sulla critica alla manovra, ora, si marcia compatti all’opposizione: ognuno segue il suo canovaccio, ognuno chiama la sua piazza. “La strategia di Conte di rilanciare sempre un po’ di più alla lunga mostrerà la sua incoerenza. Tanto più se radicalizzi la critica al governo, alla fine i tuoi elettori ti chiederanno: ‘Bene, d’accordo, ma come pensi di mandarlo a casa?’. Nel Lazio,  l’aver rotto un’alleanza per pura convenienza tattica dimostra  come il M5s accetti di far vincere la destra. Dopodiché, e lo dico  a chi mi rimprovera di essere  accomodante col grillismo,  se il Pd smette di essere di sinistra, consente ad altri di recitare la parte della sinistra. Peraltro quando il processo era unitario i rapporti di forza erano molto più favorevoli per il Pd”.

Eccolo, dunque, il centro gravitazionale di ogni analisi di Orlando. “La nostra identità politica”. Quello “è il nodo che va sciolto”, dice l’ex ministro, “anche per capire quale sia il ruolo  che noi dobbiamo giocare nella logica del campo largo”. Identità, dunque. “Anzitutto, occorre liberarci dell’ansia della vocazione maggioritaria,  anacronistica in uno scenario ormai nei fatti proporzionale, perché ci ha portato troppo spesso a eludere alcune questioni profonde. E questo lo dico anche a chi, con una certa dose di ipocrisia, invoca lo smantellamento delle correnti in nome di un unitarismo che poi si risolve nella sospensione del giudizio. Siamo arrivati al voto in una condizione di unità interna senza precedenti, ed è andata come sappiamo”.

Dunque da questo sbiadito attendismo, da questa afasia, si esce solo “con una maggiore esplicitazione del dibattito”, dice Orlando. E certo con i due candidati più accreditati, Stefano Bonaccini ed Elly Schlein, la radicalizzazione del confronto pare inevitabile. “Trovo sbagliato risolverla in una conta tra due nomi, senza avere prima ridefinito le nostre coordinate. Senza aver prima stabilito, cioè, che la prospettiva del Pd non può che essere quella di un partito socialista che si batte contro le disuguaglianze. Il che implica di non esimerci da un giudizio critico sul sistema di sviluppo, tanto più per come si è evoluto in questi anni, per quanto la cosa susciti ironie”.

In un recente intervento in direzione, Orlando ha detto: “Dobbiamo andare fino in fondo nel confronto tra di noi, pur accettando il rischio che alla fine del percorso non saremo gli stessi che eravamo all’inizio”. Un’altra scissione imminente? “In una forza politica che decide di ripensarsi profondamente, non possono esserci paure preventive. Ma l’obiettivo è opposto: rimescolare senza dividere. Io ad esempio credo che un Pd con una identità neosocialista possa includere tutte le culture fondative del partito, ovviamente attorno a un baricentro più attento alla questione sociale e al lavoro. Forse non tutti ci si riconosceranno: e sarà fisiologico. Ma nessuno qui invoca epurazioni, anzi auspico un’evoluzione comune. Ricordo  che il Partito socialista francese nacque proprio dall’intesa tra i radicali e i cristiano-sociali, che di fatto ne assunsero la guida”. Suggestione, quella sulla fondazione del Ps, che fatalmente ne richiama un’altra: quella sulla sua agonia. “Le vicende si somigliano in modo sinistro, certo. Non solo perché, pur  con tutte le cautele del caso, la morsa tra Macron e Mélenchon richiama  quella in cui rischiamo di finire stretti con Calenda  e Conte. Ma anche perché, dopo la mancata ricandidatura di Hollande, il Ps pensò di uscire dallo stallo con una conta tra vari nomi, e basta. Ecco…”. 

E però, pur in questa refrattarietà a lasciarsi trascinare nella sfida tra due candidati, ci sarà, in Orlando, una preferenza tra Schlein e Bonaccini. “Per scegliere, dovrei prima capire come la pensano, l’uno e l’altra, sui temi che io reputo imprescindibili”. Precipitoso pensare che con Bonaccini la sintonia, su questi temi, sia meno scontata che con Schlein? “Mi pare ancora presto per capire. Finora Bonaccini, nel suo discorso, ha parlato più che altro di questioni organizzative interne. Però, in effetti, da parte sua non c’è stata alcuna riconsiderazione sulla stagione del renzismo: e non perché si pretenda un’abiura, ma una riflessione su cosa abbia implicato quella fase, per i destini del Pd, è doveroso attendersela”.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.