(foto Ansa)

Quali sono i freni alla legge sull'autonomia differenziata

Oscar Giannino

La sussidiarietà istituzionale dal basso è un ottimo principio. Ma ci sono due scogli principali nella riforma delle regioni: la frammentazione dei mercati e le risorse

Nel governo, Salvini e la sua Lega – dopo anni persi dietro all’idea non molto fortunata di un “partito nazionale” – hanno fretta sull’autonomia differenziata delle regioni. Domani sul tema si terrà un interessante confronto a Venezia organizzato da Confindustria, in cui le imprese cercheranno di capire dal ministro Calderoli, dal presidente del Veneto Zaia e da quello della Campania De Luca che cosa davvero aspettarsi. Sono passati 22 anni dalla modifica degli articoli 116, 117 e 119 della Costituzione, approvati in referendum dopo esser stati approvati con una maggioranza di 4 voti in parlamento. Ne sono trascorsi 5, dai referendum in Lombardia e Veneto sull’autonomia differenziata. Ma con i governi Conte le bozze d’intesa sulle richieste delle regioni si arenarono. Venne istituita una commissione di studio. Nacque l’idea di una legge cornice. Ma anche nel governo Draghi la bozza passò dal tavolo del ministro Boccia a quello del ministro Gelmini. E ora siamo all’iniziativa di Calderoli.

 

Chi qui scrive è un autonomista einaudian-sturziano. La sussidiarietà istituzionale dal basso è un ottimo principio. Ma su almeno due questioni essenziali, 22 anni non sono passati invano. La prima è quella delle 23 materie previste allora in Costituzione come soggette a richiesta di autonomia rafforzata dalle regioni ordinarie. Alcune di esse contrastano frontalmente con quanto pandemia e guerra ucraina ci hanno dimostrato.  In particolare quelle relative ai rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni, al commercio estero, ai porti e aeroporti, grandi reti di trasporto e navigazione, ordinamento della comunicazione, e alla produzione, trasporto e distribuzione dell’energia. Non ha senso pensare nel mondo attuale a micropolitiche estere e commerciali regionali, a criteri locali sulle grandi reti di trasporto e tanto meno sui mercati digitali Itc. E’ follia immaginare scelte energetiche in contrasto con l’ottimizzazione necessaria di fonti, infrastrutture e reti, la cui assenza paghiamo molto caro.  Va aperto in Conferenza stato-regioni un confronto serio, volto ad autolimitare le scelte rispetto a quanto previsto 22 anni fa. Altrimenti aggiungeremmo ai nostri freni anticrescita anche la microframmentazione di mercati per i quali la soluzione è renderli davvero europei, non ancora più segmentati al nostro interno. Zaia non ha respinto un simile sforzo comune di ragionevolezza. Ma bisogna che il governo lo dica con chiarezza.

 

Il secondo macigno riguarda le risorse. La definizione dei Livelli essenziali di Prestazione dei servizi essenziali deve essere fatta in maniera tecnicamente impeccabile.  Perché i divari sono diventati in vasta parte del paese tali da rendere impossibile credere che la loro soluzione possa avvenire a invarianza di spesa ed entrate. Né la messe di risorse del Pnrr si mostra sinora decisiva. Come riportato dal Sole 24 Ore, un comune su sei in Italia (escluse le autonomie speciali del Nord) ha chiuso l’ultimo bilancio in deficit. E il 72 per cento di questi 1.200 comuni è al Sud: in Calabria il 63 per cento dei municipi, in Sicilia il 52 per cento, in Campania il 48, mentre in Veneto sono solo 5 su 563. Per gli asili nido il Pnrr stanzia 4,6 miliardi, Draghi ne aggiunse un altro. Ma oltre 3.400 comuni senza asili hanno disertato i bandi, perché realizzatili non avrebbero finanza per i costi di gestione. Sulla sanità le condizioni sono analoghe. Se i Lep sono calcolati seriamente, la loro offerta nelle aree più arretrate richiederà molte risorse aggiuntive, e può avvenire solo attuando una forte revisione e riallocazione della spesa pubblica nazionale, nonché con la nascita di un fondo strutturale per la perequazione da alimentare per tutti gli anni a venire, fino a risultati monitorati e conseguiti. Non possono bastare aliquote di compartecipazione a tributi nazionali. Si può provare a battersi in Ue perché tale fondo di perequazione sia extra deficit di bilancio, come fa oggi la Germania con i suoi 200 miliardi destinati al sostegno del caro energia. Ma credere di rimediare ai gap del Sud a saldi invariati è irreale. Senza serietà e chiarezza su materie e risorse, le regioni e il paese si spaccano sulla devolution. Bisogna evitarlo. Dopo pandemia e guerra in Ucraina, non dobbiamo soffiare sul fuoco dei nostri problemi interni. Vanno affrontati e risolti usando testa e calcolatrice, non minando la coesione.

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