Foto di Filippo Attili, Palazzo Chigi, via LaPresse 

il commento

Perché le riforme del governo Meloni saranno un test più per l'opposizione che per la maggioranza

Claudio Cerasa

Sull'autonomia la presidenza del Consiglio ha alleati fuori, come Bonaccini o Giani, e nemici dentro, come FI. Mentre sul garantismo di Nordio, Calenda e Renzi sono in prima fila. E ancora, fisco e premierato. La trasversalità dell'esecutivo

Dovevano essere il terreno di uno scontro violento e insanabile tra maggioranza e opposizione. Dovevano essere l’occasione giusta per dimostrare la distanza siderale che esiste tra chi si trova al governo e chi il governo lo contrasta. Dovevano essere il campo da gioco perfetto per dimostrare la pericolosità dell’esecutivo, il suo essere una minaccia per la democrazia, per la Costituzione e per l’Italia. E invece, giorno dopo giorno, le quattro grandi riforme che si trovano in cima all’agenda del governo Meloni, nonché le uniche riforme che possono permettere alla maggioranza di centrodestra di costruire un percorso svincolato dalla semplice declinazione degli affari correnti, sembrano essere destinate a lacerare non tanto l’Italia quanto l’opposizione.

 

Le quattro grandi riforme a cui facciamo riferimento, riforme che sono ancora allo stato embrionale ma di cui iniziano a intuirsi i contorni, sono quelle che conoscete: la riforma presidenziale, la riforma dell’autonomia, la riforma fiscale e la riforma della giustizia. Nessuna di queste quattro riforme si presenta oggi di fronte agli occhi degli osservatori in modo compiuto, per utilizzare un eufemismo, ma la semplice evocazione di queste riforme, per l’opposizione, o almeno per un pezzo di essa, permette di illuminare in modo evidente alcune interessanti contraddizioni che riguardano le alternative a questo governo.

 

Pensate al caso dell’autonomia differenziata, per dirne una, che è vero che ha molti nemici all’interno del governo, pensiamo a Forza Italia, ma che vanta all’interno dell’opposizione alcuni alleati doc, come il governatore della Toscana Eugenio Giani e il governatore dell’Emilia-Romagna, e candidato alla guida del Pd, Stefano Bonaccini, che pur contestandone l’impianto generale si è detto più volte disponibile a lavorare con il governo per migliorare la riforma.

 

Pensate al caso della riforma della giustizia, poi, che è vero che è una riforma ancora tutta da costruire, ovvio, ma che è anche una riforma i cui princìpi garantisti hanno permesso a un pezzo dell’opposizione di avvicinarsi al governo su questo tema, vedi il caso di Calenda e Renzi, e hanno spinto un pezzo di Pd a coltivare più l’arte del silenzio che la professione della critica, essendo i princìpi garantisti espressi dal ministro Nordio patrimonio condiviso di un pezzo non irrilevante del Pd. Divide l’opposizione la giustizia, così come la divide l’autonomia, ed è destinata a dividere l’opposizione anche la prossima proposta di riforma fiscale, visto e considerato che l’obiettivo di ridurre le aliquote a tre (23, 27  e 43 per cento), puntando sul quoziente familiare (da introdurre) e intervenendo in modo drastico anche sull’Irap (arrivando a eliminarla) è un obiettivo che il centrosinistra ogni volta che ha avuto la possibilità di governare ha cercato di perseguire senza mai riuscirci (e per il centrosinistra, quando vi sarà la riforma fiscale, sarà dura proporre una visione alternativa, avendo avuto diverse occasioni per fare la sua riforma fiscale negli ultimi undici anni, dieci dei quali passati al governo).

 

Vale per questi tre argomenti, dunque, ma il ragionamento svolto finora vale fortissimamente anche per un’altra riforma, teoricamente ultra divisiva, che coincide con una riforma che si trova al centro del programma elettorale del centrodestra: il presidenzialismo. Si potrebbe notare che sono anni che il Pd, e anche i suoi antenati, presentano in Parlamento riforme costituzionali volte a fare ciò che oggi il centrodestra sogna di fare, ovvero “dare all’Italia un coerente impianto presidenzialista, costruito con adeguati pesi e contrappesi, vuol dire fare uscire la democrazia italiana dal pantano attuale”.

 

“Vuol dire anche ridare dignità, consenso e credibilità alle istituzioni democratiche” (la frase che avete appena letto tra virgolette fa parte della presentazione di una proposta di legge avanzata da alcuni esponenti del Pd per la trasformazione del sistema politico istituzionale nel 2013). Ma ciò che risulta essere maggiormente interessante è che, come ci racconta una fonte importante del governo con accesso diretto ai dossier più importanti della maggioranza, il presidenzialismo potrebbe essere nient’altro che una palla lanciata in avanti per arrivare a una mediazione su un modello di riforma istituzionale diverso e ancora di più condiviso: il famoso premierato forte.

 

Non l’elezione diretta del capo dello stato, dunque, ma il rafforzamento dei poteri del premier con aggiustamenti maggioritari alla legge elettorale in grado di creare un rapporto ancora più forte tra l’elezione politica e la scelta del capo del governo. Dovevano essere il terreno di uno scontro violento e insanabile tra maggioranza e opposizione, le riforme del governo Meloni, rischiano di diventare il terreno per dimostrare l’opposto: la trasversalità inaspettata del governo Meloni e l’impossibilità per le opposizioni di marciare unite e fare quello che avrebbero il dovere di fare per riorganizzare il proprio campo e magari un giorno tornare a vincere. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.