Il profilo

Rivera, il Filottete. Il dispiacere del direttore del Mef abbandonato "dall'amico" Giorgetti

Carmelo Caruso

Due mesi vissuti da processato. Le origini nobili, la passione per la maratone, la lunga marcia che ha portato Alessandro Rivera a diventare direttore generale del Tesoro fino alla caduta

In due mesi è stato definito “potente”, “insostituibile”, “l’uomo che parla ai mercati internazionali”, una “testa da tagliare”.  Da oggi Alessandro Rivera è l’ex direttore generale del Tesoro. E’ diventato più famoso del calciatore Gianni e ne ha sofferto (“intorno alla mia figura si è costruita una mitologia”). Quando Giancarlo Giorgetti lo ha convocato, per annunciargli la sostituzione con Riccardo Barbieri, raccontano che Rivera sia rimasto in silenzio e  pensato: “Hanno il diritto di farlo ma potevano risparmiarmi lo stillicidio”. Viene abbandonato dal suo ministro come i greci avevano abbandonato Filottete a Lemno e a cui Sofocle faceva recitare: “Ma che importa or dirlo. Non di lunghi discorsi è questa l’ora”. E' “l’ammorbato”.


Rivera sapeva che non sarebbe rimasto direttore generale del Tesoro, ma non voleva credere che un ministro del Tesoro avesse la forza di “sollevare” un direttore generale che è stato difeso perfino del ceo di Banca Intesa, Carlo Messina. Quando i ministri di FdI hanno cominciato a chiedere la sua rimozione, a causa dell’operazione Mps, Rivera davvero non comprendeva. Si difendeva sempre con pochi amici, mai al Mef, e confidava che a Milano, quando scendeva dal treno, gli investitori di Mps si complimentassero con lui per aver salvato la banca: “Dove avrei sbagliato?”.

 

In Abruzzo a San Sisto, L’Aquila, possiede anche un castello ed esiste pure una porta, la porta Rivera. Ha origini nobili. E’ una colpa nascere bene? Gli hanno rimproverato di essere di sinistra, filofrancese (“ma lo sai che legge il Monde?”) troppo colto (suo nonno ha rifondato l’università della città nel Dopoguerra). Tra i “capi d’imputazione” anche quello di avere un fratello che ben quindici anni fa si è candidato in una lista civica vicina al Pd. Tra le carte di quello che per i giornali è ormai il “caso Rivera”, il primo vero grande rogo, il primo vero “processo al burocrate”, c’è sempre il lavoro del fratello, Vincenzo, dirigente generale (pure lui) della regione Abruzzo con Ottaviano Del Turco e con Luciano D’Alfonso. A dirla tutta lo è ancora con il governatore Marsilio di FdI.

 

Il suo avo più antico, come ha scritto Angela Baglioni su il Centro, era Pietro Riviera, con la i, signore di Collimento e capitano di Federico II. I Rivera nei secoli hanno perso la “i” come Alessandro ha perso la sua direzione. Quando istituti privati hanno cercato di strapparlo al suo mondo, al ministero, al pubblico, ottenevano un rifiuto. Un vecchio ministro particolarmente sferzante ricorda che quando lui era ministro “Rivera non era altro che un verbalizzante”. Rivera ha scalato il Mef con tenacia, piano piano. E’ infatti un maratoneta. In vent’anni ha lavorato con tutti: Draghi, Scannapieco, Grilli, Tremonti, Padoan, Monorchio, Visco, Padoa-Schioppa, Saccomanni… E’ stato Giovanni Tria a promuoverlo direttore generale, ma il suo maestro è stato Riccardo Ulissi. Gualtieri, oggi sindaco di Roma,  chiamava Rivera il mio “Giannirivera”. Nei fine settimana il direttore generale girava l’Europa per partecipare alle gare podistiche prima di una fastidiosa ernia cervicale.

 

Se c’è qualcosa che condivide con Giorgetti è proprio la schiena malandata. A pensarci era l’unico aneddoto su di lui. Non ha mai sopportato che si parlasse del privato. Pochi amici.  Non è sposato. Ci sono foto di Rivera con e senza la barba che è l’autunno degli uomini. A Bali, al G20, da direttore generale ha accompagnato Giorgetti e dicono che ancora progettasse futuri impegni. Era un perfetto sconosciuto prima di trasformarsi in titolo da quotidiano. Ogni mattina quando leggeva gli articoli su di lui avrebbe voluto urlare “è una mistificazione”; “contro di me c’è un pregiudizio ideologico e dietrologico”, “un ministro deve difendere il suo direttore”. E però non poteva dirlo perché i direttori hanno il divieto di parlare anche quando i ministri, e lo hanno fatto quelli di FdI, teorizzano per i dirigenti “l’allineamento ideologico”.

 

Rivera si era messo al servizio di Giorgetti. Credeva sul serio che il “ministro” lo difendesse e invece Giorgetti gli avrebbe offerto un credito, una specie di fiche, gettone per l’avvenire. Il governo gli ha in pratica promesso di fare il suo nome per la Bei, ruolo per cui già corre Scannapieco. Rivera è figlio della tradizione Mef quella che sfidava anche i premier e i ministri. Una volta un ragioniere dello stato venne chiamato dal suo ministro dell’Economia: “Venga subito” e lui senza scomporsi rispose: “Il ragioniere dello stato verrà dal ministro quando avrà finito il suo lavoro”. Lo hanno sostituito con Riccardo Barbieri di cui già si dice “ma è più a sinistra di Rivera!”. Rivera resterà al Mef come dirigente di prima fascia, smaltirà le ferie, rileggerà forse Bulgakov uno dei suoi autori preferiti che, ne “Il Maestro e Margherita”, scriveva: “Io preferisco sedere in basso, quando si sta bassi non è pericoloso cadere”.

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio