Foto di Fabio Frustaci, via Ansa 

il commento

Un governo contro i giovani

Claudio Cerasa

Il discorso di Mattarella ha fatto fischiare le orecchie alla premier in più punti. E ben tre riguardano il futuro negato alle nuove generazioni: fisco, innovazione e pensioni. Il nazionalismo è nemico del futuro

Nel discorso di fine anno pronunciato da Sergio Mattarella ci sono almeno quattro passaggi che devono aver fatto fischiare le orecchie alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Il passaggio più scontato, e più morbido, è quello dedicato dal capo dello stato all’importanza per l’Italia di avere finalmente una donna premier. I passaggi meno scontati, e implicitamente più severi, sono invece quelli dedicati dal presidente della Repubblica ad altri temi più delicati sui quali Meloni farebbe bene a sentirsi chiamata in causa. Sul fisco Mattarella ha ricordato, con forza, che la Repubblica “è di chi paga le tasse” e rammentare questo concetto in un momento storico in cui vi è un governo che in due mesi ha scelto di offrire agli evasori maggiori strumenti per avere una vita più agevole, tetto del contante più alto, Pos demonizzato, condoni approvati, fatturazione elettronica contestata, è qualcosa di più di una semplice frase di rito: è un avvertimento.

 

Sull’innovazione, Mattarella ha ricordato che questa deve essere sì “interpretata per migliorare la nostra condizione di vita” ma ha anche aggiunto, non casualmente, che “non può essere rimossa”. Anche sui giovani, poi, il capo dello stato ha offerto una riflessione non rituale, che si trova alla fine del discorso. Poche righe, efficaci: “Facciamo sì – ha detto Mattarella – che il futuro delle giovani generazioni non sia soltanto quel che resta del presente ma sia il frutto di un esercizio di coscienza da parte nostra. Sfuggendo la pretesa di scegliere per loro, di condizionarne il percorso”. Mattarella, con saggezza, invita la classe politica a occuparsi in modo non retorico del futuro dei giovani e se si sceglie di prendere sul serio questo appello, come andrebbe fatto, non ci si può non chiedere se la traiettoria imboccata da chi oggi ha in mano le leve giuste per determinare il futuro dei giovani, ovvero il governo, sia incoraggiante oppure no.

 

La risposta a questa domanda, due mesi dopo la nascita dell’esecutivo Meloni, è purtroppo drammaticamente negativa e ci sono alcuni indizi che ci possono aiutare perché, almeno finora, le politiche messe in campo dalla maggioranza sovranista appaiono essere poco nell’interesse delle nuove generazioni. La prima ragione, la più scontata, riguarda una triste conferma arrivata dal governo Meloni sul tema delle pensioni. L’Italia, Meloni forse ne avrà sentito parlare, fa segnare da anni un record assoluto sul tema della spesa pubblica dedicata alle pensioni. Nel 2020 la spesa ha registrato un record assoluto con 270 miliardi di euro, corrispondenti al 17 per cento del pil, più di qualsiasi altro paese dell’Unione europea, e nonostante gli importanti oneri che gravano sulla spesa per le pensioni in Italia per effetto del meccanismo di indicizzazione all’inflazione, 50 miliardi di euro in più tra il 2022 e il 2025, il governo Meloni non ha trovato niente di meglio da fare, nella sua prima legge di Bilancio, che dedicare le poche risorse disponibili più a chi un lavoro lo ha già avuto che a chi lo deve ancora avere, e ha così congegnato un meccanismo, chiamato quota 103, che, al lordo della fiscalità, costerà, secondo le stime dell’ufficio parlamentare di Bilancio, circa 0,6 miliardi nel 2023, 1,4 miliardi nel 2024 e circa 0,5 miliardi nel 2025, proiettando allegramente la spesa per le pensioni verso il 17 per cento del pil).

 

Anche Meloni, come fece Salvini nel 2018 al tempo del governo gialloverde, ha scelto dunque di aderire alla strategia della pensione facendo ricadere il costo dei suoi capricci elettorali sulle spalle dei giovani, che per molto tempo si ritroveranno ad avere salari molto bassi anche a causa delle tasse alte che andranno pagate per finanziare una spesa pubblica che anno dopo anno viene destinata sempre più alle pensioni e sempre meno alla crescita e al finanziamento delle politiche a favore dell’innovazione. E dunque la domanda è quasi retorica: un governo che si occupa di destinare i pochi spicci ricavati in manovra alla diminuzione dell’età per andare in pensione, negli stessi mesi in cui paesi come la Francia e la Germania cercano di trovare, coerentemente con un’aspettativa di vita che anno dopo anno migliora, un modo per alzare l’età pensionabile, e che contestualmente stanzia in manovra zero euro sulla ricerca, zero euro per incentivare il rientro in Italia di studenti e ricercatori, fottendosene delle ricadute che potrebbe avere sui più giovani una politica non ostile all’evasione fiscale (i giovani sono scarsi contributori fiscali e non potranno che subire il peso dell’evasione più di quanto possano giovarsene) e considerando l’innovazione una perdita di tempo (no spid, no Pos, sì luddismo) al punto da consegnare a un sottosegretario fantasma di nome Alessio Butti la gestione dell’innovazione dell’Italia, può essere considerato un governo che ha a cuore il futuro dei giovani?

 

La domanda purtroppo non è retorica e in presenza di un governo che, a proposito di futuro, a proposito di giovani, considera l’Europa utile solo quando si trasforma in un bancomat, un governo che considera la tecnologia un pericolo da cui difendersi, un governo che considera l’innovazione come un inutile orpello del Pnrr, un governo che sceglie di considerare la globalizzazione come un nemico da cui proteggersi e che mostra totale disinteresse per la cifra ridicola destinata dall’Italia al comparto ricerca e sviluppo (1,4 per cento del pil, tenendo conto sia dei soldi pubblici che di quelli privati, una delle percentuali più basse dell’Unione europea) è un governo che, per usare le parole di Mattarella, ha un profilo “adeguato” per “promuovere una cultura digitale che garantisca le libertà dei cittadini” ed essere davvero dalla parte dei giovani? Rispondere a questa domanda, oggi, genera sconforto, perché mostra quanto il nazionalismo, avendo a cuore il presente più che il futuro, spesso oltre che essere un nemico dell’interesse nazionale è anche nemico dei giovani, ma è necessario per capire fino a che punto la traiettoria del melonismo diverrà o no l’ennesimo tassello di una pericolosa strategia della pensione, finalizzata a scaricare sulle spalle dei giovani il costo della demagogia populista.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.