(foto Olycom)

Il gran rifiuto alla Meloni. Le Élite e la politica, storia di amori e tradimenti

Stefano Cingolani

Non solo establishment, ma classe dirigente in senso ampio. Oggi dicono no a nomine e candidature, ma il ’900 italiano è pieno di esempi diversi. Come si è giunti a questo? I precedenti e qualche spunto per il futuro

Questa volta non sono saliti sul carro del vincitore, nonostante fossero caldamente invitati. Si sono fermati sul predellino, poi si sono ritratti. Timore, ritrosia o magari calcolo e, perché no, vendetta dopo anni alla gogna, con il popolo invitato a tirare loro pietre e uova marce. Non può essere così, non funziona questo racconto da feuilleton, c’è dell’altro per capire quel passo indietro di banchieri, economisti, intellettuali, tutti a rifiutare posizioni di rilievo nel nuovo governo, nonostante la corte plateale della politica tornata al primo posto dopo i due esprimenti platonici affidati a Mario Monti e Mario Draghi. Siamo di fronte a un tradimento dei chierici o a una ritirata dell’élite? Non è la prima volta che accade soprattutto quando la storia presenta svolte radicali.

Esattamente un secolo fa il senatore Ettore Conti, uomo di punta degli industriali elettrici, non se la sentì di diventare ministro dell’Industria: “Non desideriamo partecipare a un governo nato dalla rivoluzione”, dichiarò, eppure era stato il re a conferire l’incarico a Benito Mussolini. Quanto al suo collega e amico Giacinto Motta, avrebbe preferito che il governo Facta avesse usato la forza per fermare la marcia su Roma. Conti non credeva che Mussolini potesse diventare un dittatore, tanto meno lo pensava Alberto Pirelli il quale non solo darà un appoggio convinto al futuro duce, ma ne diventerà ambasciatore presso i poteri forti europei. Erano stati convinti giolittiani fino all’occupazione delle fabbriche, poi avevano sperato in Francesco Saverio Nitti, infine delusi dalla crisi del sistema politico liberale, guardavano con interesse all’avvento di un uomo nuovo, un uomo forte, un capo come scriveva Pirelli affascinato dalla personalizzazione carismatica della politica della quale aveva scritto Max Weber. Alcuni di loro avevano finanziato apertamente Mussolini, altri seguivano il saggio wait and see. Intanto gli intellettuali di punta si agitavano. Benedetto Croce e Arturo Toscanini avevano appoggiato i fasci di combattimento, Luigi Pirandello, Pietro Mascagni, Giacomo Puccini, non solo gli scapigliati futuristi speravano nella “rinascita della nazione” ferita dalla “vittoria mutilata”. Certo è che il collasso del vecchio regime poneva le élite italiane di fronte alla malia del potere e al drammatico dilemma: aderire o non aderire. 


Il fascismo e il collasso del vecchio regime ponevano le élite italiane di fronte alla malia del potere e al  dilemma: aderire o non aderire


Facciamo un passo indietro: di che cosa parliamo quando parliamo di élite? In francese deriva da élire, scegliere. Ma chi sceglie? Un’autorità superiore, morale, politica, religiosa, o c’è qualcosa che viene dall’interno della società? Vilfredo Pareto, il grande sociologo (anche lui affascinato da Mussolini), definiva élite l’insieme degli individui più capaci in ogni ramo dell’attività umana, che, in una determinata società, sono in lotta contro la massa dei meno capaci e sono preparati per conquistare una posizione direttiva. Dunque, la classe dirigente in senso lato, definita non dalla nascita o dal consenso, ma dal merito. Nell’accezione corrente è l’insieme delle persone considerate le più colte e autorevoli in un determinato gruppo sociale, e dotate quindi di maggiore prestigio. In ogni caso non coincide con i più nobili né con i più ricchi o i più potenti in senso stretto, non è l’establishment, cioè chi detiene il potere comunque e vigila con ogni mezzo sull’ordine costituito, anche se spesso i significati si mescolano. Per scendere a terra, il fenomeno che ci colpisce oggi riguarda il rapporto tra questa élite nell’accezione di Pareto e la classe politica, anche quella scelta dal popolo. E’ una linea di faglia che nella storia italiana è mobile come la terra sulla quale il paese vive. Amori e disamori, passioni e compromissioni, il rapporto con la politica è sempre stato sulfureo.

 

Nel suo libro “Gli industriali e Mussolini” che ancora resta un punto di riferimento, lo storico Piero Melograni analizza in ogni dettaglio il rapporto a molte facce tra il capitalismo e il fascismo, che non coincidono come vuole una certa vulgata marxista (non Antonio Gramsci né Palmiro Togliatti, che parlavano piuttosto di rivoluzione della classe media). Proprio la figura di Conti è rivelatrice. Il 7 gennaio 1922 scrive nel suo diario che il ritorno, alla guida del fascismo, di Mussolini “più fiducioso nelle élite che nelle masse, è fatto per non dispiacere alla Confindustria”, la quale tuttavia chiede Giovanni Giolitti al governo e che “il fascismo venga incanalato”. Ne scrivono in una lettera ufficiale al prefetto di Milano Alberto Pirelli, Antonio Benni (Ercole Marelli), Raimondo Targetti presidente confindustriale, il senatore Conti e l’onorevole Gino Olivetti, del quale già un giornalista fascista, Giovanni Preziosi, chiedeva l’eliminazione perché ebreo. Questo doppio binario continuerà.


Vilfredo Pareto definiva élite gli individui più capaci in lotta contro la massa dei meno capaci, i preparati per conquistare una posizione direttiva


Seguiamo ancora Conti: nel 1925 non vota i pieni poteri a Mussolini, nel 1927 si scaglia contro la politica economica del regime, attacca quota 90 e la rivalutazione della lira osteggiata dall’insieme degli industriali, nel 1932 si iscrive al Partito fascista, nel ’37 incontra Hitler, nel ’38 guida la missione economica in Giappone per saldare l’asse Ro-Ber-To, Roma-Berlino-Tokyo. Giovanni Agnelli indosserà la camicia nera solo per l’inaugurazione di Mirafiori nel 1939 alla presenza del Duce (sembra avesse fatto tingere una sua vecchia camicia bianca), Vittorio Valletta invece fu massone e aderì al Pnf. Intanto Toscanini nel 1931 aveva rifiutato di eseguire “Giovinezza”, venne schiaffeggiato da Leo Longanesi autore dello slogan “Mussolini ha sempre ragione” e se ne andò negli Stati Uniti. Luigi Einaudi scriveva dalla Svizzera, Croce – sempre convinto che il fascismo fosse una parentesi nella storia d’Italia – diventava il punto di riferimento dell’opposizione liberale europea.

L’élite in tutte le sue varianti non si tira indietro nell’immediato dopoguerra né in tutto il periodo della ricostruzione. Illuminante è il dibattito all’assemblea costituente per capire quanto l’Italia repubblicana venga segnata dal contributo determinante dei competenti e dei “capaci” alla Pareto. Angelo Costa, capo della Confindustria, si batte per una economia liberale ed è interessante ricordare che nella sua battaglia contro ogni ipotesi di cogestione delle fabbriche (sostenuta dalla sinistra Dc e dalla sinistra socialista) sia stato appoggiato da Togliatti. Il primo voleva la piena autonomia dell’imprenditore, il secondo riteneva che il sindacato dovesse avere mani libere in azienda e agire da cinghia di trasmissione del partito, entrambi tuttavia pensavano che per rimettere in piedi l’Italia il capitale e il lavoro dovessero restare ciascuno al proprio posto. Valletta invece sperava nel ruolo attivo dello stato nell’economia. Riportato alla guida della Fiat dopo una breve epurazione anche grazie alla realismo togliattiano, sospettoso sui consigli di gestione e sostanzialmente contrario a questo esercizio di contro-potere operaio, il Professore come lo chiamavano, era per un intervento pubblico in stile Nitti-Beneduce, a sostegno di una industria che doveva diventare grande. Una posizione che Valletta non abbandonò mai: volle l’Autostrada del sole insieme all’Iri e all’Eni, si schierò contro Enrico Cuccia per la nazionalizzazione dell’energia elettrica, sostenne l’apertura a sinistra e l’ingresso dei socialisti al governo. E fece anche di più: diede un contributo attivo e molto concreto al suo amico Giuseppe Saragat per spaccare il Psi, fondare il Partito socialdemocratico e un sindacato, la Uil, Unione italiana del lavoro, che ebbe una funzione importante nel contrastare la Cgil alla Fiat. Valletta non aveva paura di sporcarsi le mani con la politica, ogni settimana scendeva a Roma per fare “il giro delle sette chiese”, due notti in vagone letto e messaggi chiari inviati nei palazzi del potere. Alla nuova Italia, quella del miracolo economico, hanno dato un contributo sostanziale le élite delle lettere e delle arti (in particolare della settima arte) e quelle della neonata sociologia che raramente vengono ricordate, per esempio il gruppo di intellettuali cattolici come Giorgio Ceriani Sebregondi (una sua raccolta di saggi “Sullo sviluppo della società italiana” pubblicata da Donzelli andrebbe riletta oggi). Ma sono finiti nel dimenticatoio persino gli intellettuali laici riuniti già negli anni 30 da Raffaele Mattioli nell’ufficio studi della Banca commerciale e che avranno un ruolo politico di primo piano (da Ugo La Malfa a Giovanni Malagodi). 


Giovanni Agnelli indosserà la camicia nera solo per l’inaugurazione di Mirafiori (sembra avesse fatto tingere una sua vecchia camicia bianca)


Rimpianto di tempi perduti? I partiti di massa, sia la Dc sia il Pci, sono stati i veicoli principali di circolazione e ricambio delle élite e non solo quelle politiche. Basti pensare alla vera e propria corte rinascimentale di scrittori, teatranti, cinematografari, editori, giornalisti, insieme ai professori universitari, ai filosofi e agli economisti, che ruotava più o meno direttamente attorno alla Balena bianca e alla Falce e Martello. Assumevano la veste di “indipendenti”, contribuivano da esterni alle scuole di partito o alle case editrici più o meno collegate (a sinistra la Einaudi, a destra Longanesi). La Dc per un lungo periodo è stata in mano ai “professori” come Amintore Fanfani e Aldo Moro. 

La prima vera crisi di sistema, negli anni 70 del secolo scorso, devastati dagli sceicchi con il petrolio e i terroristi di destra con le bombe e di sinistra con le P38, vede la discesa in campo degli industriali guidati da Gianni Agnelli. Non che fossero stati estranei alla “politique politicienne”. La Guerra fredda li aveva spinti a muovere i fili dietro le quinte, in funzione anticomunista, con il Msi e con la Dc, ma anche con l’ala nenniana del Psi attraverso la Montedison che pagò tra l’altro il centro studi sul comunismo di Renato Mieli (uscito dal Pci), acuto indagatore dell’est Europa, o con imprenditori come Necchi, Innocenti, Pirelli. Tuttavia l’Avvocato che stringe con la Cgil di Luciano Lama il patto sociale, dà vita alla scala mobile e poi colloca Guido Carli, ex governatore alla Banca d’Italia, alla guida della Confindustria, diventa il segnale che il grande capitale varca il Rubicone. Senonché le difficoltà finanziarie della Fiat costringono Agnelli a una rapida ritirata e aprono spazi da una parte a un imprenditore ad alta vocazione politica come Carlo De Benedetti e, sul fronte opposto, al nuovo corso socialista guidato da Bettino Craxi. 


Nel Dopoguerra Angelo Costa, capo della Confindustria, è appoggiato da Togliatti nella sua contrarietà alle ipotesi di cogestione delle fabbriche


Il Psi che rompe il cordone ombelicale con il Pci ha bisogno di sostegni e consenso, gli uni e gli altri li trova da un lato nei poteri emergenti che sfidano i “poteri forti” inquadrati attorno all’asse Fiat-Mediobanca, dall’altro negli intellettuali di estrema sinistra impegnati in una battaglia contro Pci e Dc prima sulle piazze poi nei giornali e nei pensatoi. Tra i primi basti ricordare l’editore Rizzoli (che controllava il Corriere della Sera) destinato a una brutta fine in mano alla P2, ma che era stato animato da migliori intenzioni, il costruttore Salvatore Ligresti fino all’uomo che condensa in se stesso politica e affari, Silvio Berlusconi. A mettere insieme una intellighenzia Lib-Lab lavora soprattutto Claudio Martelli e il gruppo attorno a Mondo operaio. Al resto pensano i colonnelli del partito sotto l’occhio di Craxi il quale però non si mette personalmente in campo: un po’ per celia, un po’ per sospetto, un po’ per convinzioni personali, vuole guardare dall’alto anche quelli dei quali ha un estremo bisogno. La Dc può contare sulle partecipazioni statali, o meglio sull’Iri diventato suo feudo, il Psi prende in mano l’Eni fondata dal cattolicissimo Enrico Mattei che l’aveva resa culla della sinistra democristiana. Nei ruggenti anni Ottanta si consuma questo scontro, con il declino del Partito comunista fuori dai giochi ben prima che cadesse il Muro di Berlino.

La seconda e definitiva crisi della cosiddetta Prima repubblica si apre con il crollo della lira proprio mentre scoppia Tangentopoli. A quel punto comincia il fuggi fuggi delle élite, quelle coinvolte nel grande gioco, quelle che temevano di essere trascinate nel maelstrom, quelle che facevano finta di dormire mentre tutto bruciava. Gli orgogliosi protagonisti che avevano usato i partiti come taxi (la battuta si deve a Mattei, ma la prassi divenne una regola anche dopo la sua morte) bollono nel calderone acceso dal pool di Mani pulite. A cominciare da Cesare Romiti che aveva duellato con Craxi nonostante scambi di favori come l’acquisto dell’Alfa Romeo sottratta alla Ford, e aveva tuonato in sintonia con Guido Carli contro “le arciconfraternite del potere” e con il cardinal Martini contro la scissione tra morale e politica. Il manager protegge il padrone e paga al posto di Agnelli che nessuno, a cominciare da Antonio Di Pietro, osa incriminare. Romiti aveva rapporti nel Psi con Gianni De Michelis e Pasquale Balzamo oltre che con Craxi, Agnelli solo con Craxi, dirà ai magistrati Giusy La Ganga, plenipotenziario socialista a Torino. Ed è con il segretario del Psi che l’Avvocato concorda la nomina di Paolo Mieli (anche lui come suo padre e come molti ex gauchiste, parte della intellighenzia vicina ai socialisti) a direttore del Corsera che tanti guai provoca poi sia a Craxi sia a Berlusconi. Ma l’intero equilibrio dei poteri è già crollato. Tutto? Non proprio, perché in realtà, nonostante la Democrazia cristiana venga sciolta, il suo substrato è rimasto e si è diffuso in modo inaspettato. 

Dobbiamo tornare agli anni 80 per mettere in luce un altro intreccio tra politica ed élite. Emerge in modo chiaro nella battaglia che la Dc conduce contro la Mediobanca di Enrico Cuccia considerata la roccaforte del complesso pluto-giudaico-massonico (anche se il banchiere romano andava regolarmente a messa). E’ Andreotti a guidare le truppe, mentre uno dei cervelli più fini della Dc, l’economista Beniamino Andreatta, tira fuori dal cappello un avvocato bresciano, Giovanni Bazoli, che diventa l’uomo più potente del mondo bancario, per molti versi successore di Cuccia e tenace avversario dell’erede del craxismo, cioè Berlusconi. 


Il Professore contro il Cavaliere è una saga durata vent’anni. In mezzo s’inserisce a lungo l’Ingegnere. Poi partirà l’offensiva contro i competenti, perché “uno vale uno”


E qui arriviamo a una nuova puntata della conversione e riconversione delle élite. Citiamo Massimo Pini, ex manager socialista autore del più completo libro su Craxi: “Secondo il verbale delle dichiarazioni di Enzo Carlotto ex dirigente dc, al processo a Marcello Dell’Utri, egli partecipò a una riunione ad Arcore tra Berlusconi e Craxi il 4 aprile 1993, domenica delle Palme. Craxi spinse Berlusconi a muoversi in politica con un disegno diverso da quello attuato: l’obiettivo era rompere la Lega. In ogni caso il segretario socialista non era d’accordo su un patto elettorale con il Msi e lo aveva sconsigliato di presentarsi alle elezioni”. Sappiamo che è avvenuto il contrario con lo sdoganamento degli ex fascisti grazie a Gianfranco Fini, l’alleanza con la Lega di Umberto Bossi e una vera e propria opa sui socialisti craxiani e sui democristiani andreottiani. Tutto questo mettendo in campo i professori. Importante era stato il ruolo dei club creati in ogni parte del paese con il contributo di intellettuali come Lucio Colletti, Piero Melograni, Marcello Pera, Antonio Marzano, Saverio Vertone, e gli altri che entrarono in Parlamento nel 1994. Fondamentali un intellettuale scuola Fiat come Giuliano Urbani e un giornalista della nidiata andreottiana come Gianni Letta. I professori si allontanano dopo pochi anni, delusi dalla mancata “rivoluzione liberal-liberista” che non è esattamente nelle corde del Cavaliere, Urbani fa il ministro poi viene abbandonato, resta Letta ripudiato dal coro delle pulzelle e poi richiamato ogni volta che era indispensabile per smussare e ricucire. 

Con gli industriali, i banchieri, il mondo degli affari, Berlusconi ha voluto sempre trattare direttamente e questo ha creato fin dall’inizio incomprensioni, conflitti, vere e proprie fratture, anche perché dal fronte opposto è emerso un altro docente universitario diventato uomo d’impresa e poi politico di professione: Romano Prodi. Il Professore contro il Cavaliere diventa una saga durata vent’anni. In mezzo s’inserisce a lungo l’Ingegnere, cioè Carlo De Benedetti, il quale prima si batte contro Craxi sostenendo la Dc di Ciriaco De Mita con il suo gruppo editoriale Espresso-Repubblica, poi contro Berlusconi al fianco di Prodi. 

 

Le privatizzazioni degli anni 90, che ancora continuano a dividere la politica e l’economia, sono state anche un grande progetto e un’altra occasione in buona parte perduta. L’idea, spiegata dallo stesso Prodi in un suo scritto, era favorire la nascita un nuovo capitalismo, aperto alla concorrenza, con aziende contendibili, sottratte ai “soliti noti” e alla lottizzazione, con nuovi imprenditori pronti a sostituire le vecchie famiglie ormai avviate a un inesorabile declino. Il processo viene avviato, ma non compiuto, si schiera contro non solo il vecchio sistema che non vuol mollare, ma anche Berlusconi che pure si è presentato come alfiere del nuovo. E lui vince in modo netto nel 2001. Non avviene nessuna rivoluzione liberale, al contrario. Gli intellettuali si dilettano nei girotondi. La Cgil con Sergio Cofferati porta al Circo Massimo un milione e passa di lavoratori per difendere l’articolo 18. La grande stampa non si berlusconizza e, alla fine, nemmeno del tutto la Rai. Alla guida della Confindustria va Luca di Montezemolo che non nasconde la sua posizione critica. Con la morte di Agnelli è diventato anche presidente della Fiat, è al massimo della sua esposizione e ha accanto un nucleo di imprenditori di successo come Diego Della Valle. Sarà tentato dalla politica, con Italia futura, durata dal 2009 al 2014, dalla quale proviene Carlo Calenda. Nel 2006 un Berlusconi furioso irrompe a Vicenza in un convegno della Confindustria e si scaglia contro la stampa italiana, contro la sinistra, contro Romano Prodi allora capo del governo, contro gli imprenditori schierati con il centrosinistra e in particolare contro Della Valle che risponde per le rime. Finisce con bordate di fischi e applausi, in un clima da stadio. Un anno dopo il Cav. vince di nuovo, poi comincia il bunga bunga, arrivano la crisi finanziaria, l’attacco al debito italiano, la caduta di Berlusconi nel novembre 2011, il governo Monti. Sembra la riscossa di Platone, in realtà Giorgio Napolitano, l’ex comunista presidente della Repubblica, vorrebbe un governo politico guidato da un tecnico, ma a sottrarsi è il suo ex compagno di partito Pier Luigi Bersani segretario del Pd che sperava nelle elezioni anticipate convinto di vincerle. 


Poi le élite si dividono tra chi vuol comprendere le ragioni del popolo indossando il cilicio e chi spera in una riscossa ma non ne prepara il terreno


E’ il momento in cui parte l’offensiva contro i competenti, i migliori, perché “uno vale uno”. Lancia la carica il comico Beppe Grillo e apre il vaso di Pandora. Comincia un decennio di instabilità politica, si succedono sette governi e cinque diverse maggioranze. Intellettuali, giornalisti, professori, industriali, banchieri per lo più restano a guardare divisi anch’essi tra chi vuol comprendere le ragioni del popolo indossando il cilicio e chi spera in una riscossa senza nemmeno preparare il terreno culturale prima ancora che economico. Ed è qui che l’élite rivela la sua debolezza di fronte a una politica sempre più scissa dalla ragione, e a un senso comune (catastrofismo, complottismo, vittimismo, complesso dello straniero, sindrome dei barbari alle porte) che spaventa il buon senso.

L’arrivo di Mario Draghi, così, si trasforma non in una riscossa, ma in uno stato d’eccezione, una parentesi troppo breve. E torna in auge la personalizzazione carismatica che prevale sui contenuti, la stessa che porta prima sugli altari e poi nella polvere Berlusconi, Grillo, Salvini, Renzi, persino Monti e Draghi osannati e presto abbandonati. Adesso è la volta di Giorgia Meloni. La ritirata delle élite sta in questo, non nel rifiuto di un posto da ministro nel governo, ma nell’ammissione della propria impotenza. Sappiamo di aver lanciato lontano, fin troppo, la nostra lenza. Ci vorrebbe uno storico per approfondire, ma non c’è dubbio che la grande questione oggi, non solo in Italia, riguarda proprio la debolezza della classe dirigente intesa nella sua accezione più ampia. Lo sfarinamento della politica rispecchia lo sbriciolarsi della società, tuttavia è anche conseguenza diretta della crisi della cultura sulla quale la stessa politica si regge se non vuol essere solo inganno e spartizione.