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il girotondo

Chi ha paura di  Meloni? Più del governo potrà la crisi

“La maggioranza Giorgia ha vinto in realismo. Mi piace”. Ma “l’Italia è in mano a un partito di destra illiberale”, ci scrivono foglianti e amici del Foglio 

Preoccupati di un governo Meloni? Sì, no, molto, poco? E per quali motivi? Concludiamo qui il nostro girotondo cominciato lunedì 3 ottobre e proseguito martedì 4. Ecco altre risposte e opinioni di foglianti e amici del Foglio.

Non preoccupato, perché so  cosa pensano i preoccupati

Io non sono preoccupato dal possibile governo Meloni anche grazie alle preoccupazioni di coloro che si dicono preoccupati. La coalizione della Meloni più che le elezioni ha vinto in realismo. Ha sconfitto il partito dei premi giornalistici. E’ finita la pacchia per Greta e per Karola. Ha reso i conservatori, pragmatici. Friedman, Milton ovviamente, era definito l’“uomo più logico” del suo tempo: c’erano aliquote al 90 per cento? Abbassiamole. C’erano banche che stampavano moneta come se non ci fosse un domani? Il domani esiste ed è inflazionato. Insomma la destra se è pragmatica non è una cosa “per vecchi”. “Mi piace abbestia” come direbbero quegli influencer che non hanno capito nulla. Farà meno di quanto ci si aspetti e più di quanto non si ritenga possibile: solo perché governare l’Italia è come domare il Rosatellum. Basta capire che non lo si può cambiare, ma lo si deve sfruttare.
La vera preoccupazione che ho è che la Meloni si impegni troppo a non preoccupare quelli che oggi sono preoccupati. Ha un piano per tutto: e questo per un grande partito conservatore, che abbia però delle sfumature liberali, non ve bene per niente. Qualche botta la deve dare. Non basta essere Giorgia per dare un tono allo spartito del nuovo conservatorismo latino. Il vestitino che le hanno cucito addosso gli avversari le ha permesso di vincere le elezioni. In cui si è mostrata lo stretto necessario. Ha vinto per differenza: le è bastato essere Giorgia. Ora temo che non sia più sufficiente. Ci sono le bollette, ma su quello sono tutti d’accordo, ci sono i prezzi, ma su quello può nulla, c’è la guerra, e su quella ha già detto e bene. Dunque resta l’idea di un’Italia produttiva e impoverita. Il partito più statalista della storia repubblicana, dopo i democratici, sarà in grado di pensare uno stato minimo, ma forte? Non ci metteremo poco a capirlo, non basteranno certo i primi cento giorni. L’Italia ha una fame scomposta di governi legittimati da un voto e l’onda durerà un bel po’. C’è da approfittare per fare subito ciò che nessuno farebbe poi.
Nicola Porro

Preoccupato, sì. 
Ma nel 2018 ero terrorizzato

Sono preoccupato? Certo che lo sono. Ma nel 2018 ero terrorizzato, e rispetto al terrore la preoccupazione è già qualcosa. Sulla carta, poco giustifica questo stato d’animo mutato. L’Italia è in mano a un partito di destra illiberale guidato da una tribuna che chiama “usuraio” l’ebreo Soros, denuncia piani di “sostituzione etnica” da savi di Sion, coltiva pessime amicizie internazionali. Alle sue spalle ha una classe dirigente tra l’inadeguato, il bollito e il francamente losco, intorno una guerra dagli sviluppi imprevedibili, davanti un autunno economico che è un campo minato. E allora, perché non vivo nel terrore? Direi che è per questioni di sensibilità musicale. Il governo gialloverde si muoveva in crescendo: Salvini sul podio del direttore alzava ogni giorno la posta della polarizzazione, giocava a un lascia o raddoppia simil-rivoluzionario su tutto, da Savona alla Diciotti, salvo poi perdere l’intero gruzzolo con la puntata imprudente del Papeete. La cacofonia grillina era in pieno accordo con la sezione percussioni di un’informazione vile e irresponsabile. Il cupo gong della condanna a Mori suonò a molti come il cenno benedicente delle toghe. Elite imbelli capitolavano sviolinando. Al fracasso concorrevano due altri direttori, uno al Cremlino e uno alla Casa Bianca, più un coro di voci nere di partiti fratelli non ancora incrinate dal flop delle europee. Vivevo nel terrore. Rispetto a tutto questo, l’ouverture di Giorgia Meloni si inserisce in un diminuendo, e lei stessa sembra incline ad assecondarlo – per ragioni di convenienza, di strategia e di scenario. I populisti non hanno più un padrino alla Casa Bianca, e chi può si affretta a svincolarsi dal gangster del Cremlino. Il Covid ha rappattumato l’Europa, pochi balordi parlano ancora di Italexit. Le risorse scarseggiano, ma i vincoli abbondano. Forse per questo ho meno paura: non è detto che questi siano meno matti di quelli del 2018; semplicemente, hanno una camicia di forza più stretta. Boia chi molla è il grido di battaglia, per fortuna non quello di Basaglia. 
Guido Vitiello

Temo la situazione,
il governo può farci poco

Tutti i governi mi preoccupano. Quelli politici dividono, quelli tecnici eludono la dialettica democratica, quelli di sinistra sonnecchiano, quelli di destra strepitano, alla fine però tutti fanno quel che possono, che in realtà è molto poco. Le emergenze che si susseguono e si accavallano dettano l’agenda, questo vale per tutti, i programmi restano sullo sfondo, vengono evocati a chiacchiere, ma alla fine riescono, ben che vada, a caratterizzare qualche emendamento, mentre la legislazione è tutta dedicata a fronteggiare i guai che vengono dall’esterno e dal passato.
D’altra parte la rappresentanza, a base sempre più ristretta per effetto dell’astensionismo, è spesso contraddittoria, come anche gli interessi personali dei cittadini. I lavoratori e i risparmiatori non sono (per fortuna) categorie distinte e contrapposte, anzi. Minacciare patrimoniali spaventa i lavoratori che non hanno a disposizione abili fiscalisti, più che i capitalisti. Così capita che il centrodestra prende più voti operai del Pd, che invece primeggia nei centri delle metropoli. Le militanze non somigliano alle leadership: il vertice del Pd si presenta in divisa della Nato, chi cucina le salamelle alle feste dell’Unità (che sopravvivono all’Unità che non c’è più, né come giornale né come concetto) mugugna e pensa che in fondo c’è sempre lo zampino della Cia. Giorgia Meloni rifiuta di festeggiare una sorprendente vittoria elettorale, pronuncia la parola responsabilità a ogni piè sospinto, ma forse preferisce evitare una piazza esultante che la saluti col braccio teso. D’altra parte la politica è così: conta saper rispondere, o almeno dare l’impressione di rispondere alle emergenze. Alla fine più delle parole conterà se si riuscirà a contrastare la prossima ondata pandemica, se si troverà carburante per le automobili ed energia per riscaldare le case e far funzionare le industrie. Il governo tecnico lodatissimo per la sua competenza nel controllo della spesa ha raddoppiato in due anni il tremendo debito pubblico, Non poteva fare altro ed è riuscito a convincere gli interlocutori delle sue buone intenzioni, Ma quel debito costa sempre di più e nessuno sa come fare a evitare un avvitamento tra inflazione e recessione. Insomma ho paura della situazione, non del governo che, quale che sia la sua composizione, non può farci quasi niente. 
Sergio Soave

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