Il retroscena

"Non sono ricattabile". Meloni va alla guerra contro il Cav. e prova l'asse con Salvini

Simone Canettieri

La leader non cede su Giustizia e Mise richiesti da Berlusconi: "Cosa fa Silvio vuole tornare a votare?".  E intanto rafforza l'intesa con il segretario della Lega

“Nell’appunto di Berlusconi mancava un aggettivo: non sono ricattabile”.  E’ sera quando Giorgia Meloni decide per la seconda volta di non piegarsi davanti al capo di Forza Italia.  E’ il giorno del “supponente, prepotente, arrogante e offensiva” che il Cav.  le riserva nero su bianco su un foglietto scritto  giovedì in Senato e svelato ieri. E’ un messaggio tondo, quello della premier in pectore che guarda alla squadra di governo. Dietro al “non sono ricattabile” c’è il no alle richieste forziste di ottenere il ministero dello Sviluppo economico e quella della Giustizia, delizia e croce della real casa di Arcore. Tra i possibili interessi per le aziende e la voglia di modificare la legge Severino. Per queste due caselle, Meloni ha in mente Guido Crosetto al Mise e Carlo Nordio in via Arenula. “Silvio deve capire che è finita quell’epoca là”.

 

La capa della destra non ha la minima voglia di ficcarsi di nuovo, come in un eterno Giorno della Marmotta, in dibattiti sul conflitto d’interesse e la guerra alla magistratura. Meglio, pensa, sfidare direttamente il Cav. convinta che alla fine dovrà arrivare a più miti consigli. “Che vuole fare? Vuole ritornare a votare? Non mi vota la fiducia?”, riflette con i fedelissimi.

 

Così Matteo Salvini, per la regola aurea dell’amico del mio nemico è il mio migliore amico, diventa un alleato. Anche la scelta di Fontana come terza carica dello stato viene vissuta da Meloni come un male minore. Certo, sa benissimo che non è proprio un sincero filoantlantista e nemmeno un grande fan di Zelensky (come le ricordano subito i lanci dell’agenzia Reuters e i titoli del Financial Times).

 

“Ma, posto che alla fine la storia della maglietta di Putin è vecchia di anni, meglio che Fontana sia andato alla Camera  che al governo. Al massimo ora cosa potrà dire? Che auspica i negoziati per la pace?”, ragionano i colonnelli di FdI. D’altronde un avvicinamento importante fra Giorgia e Matteo, due che fino a pochi giorni fa si dicevano alle spalle le peggiori cose l’una dell’altro, si è concretizzato giovedì al Senato. Quando il capo del Carroccio non solo ha tolto Roberto Calderoli dalla corsa (promettendogli un posto di governo), ma soprattutto ha evitato che i franchi tiratori leghisti si scatenassero contro Ignazio La Russa. La tregua dunque passa da questi dettagli non banali che sono la spia forse anche di un allontanamento di Salvini dall’amica Licia Ronzulli, fumo negli occhi di Meloni.

 

Anche se ormai  il problema – grande come una casa – ce l’ha direttamente con il Cav. Non sono tanto i quattro aggettivi rivelati da Repubblica ad averla ferita ma quel sottofondo di “inadeguatezza” che Berlusconi le tributa. Dunque in questa fase il silente Antonio Tajani ridiventa centrale. Basta osservarlo come viene circondato dai capannelli dei parlamentari di Fratelli d’Italia (“non possiamo impiccarci per Licia”, dice ai meloniani con faccia bonaria). Anche l’ex presidente del Parlamento europeo lavora a una ricomposizione. “Anche se adesso la pentola è troppo bollente, va fatta raffreddare”, ragiona Francesco Lollobrigida con i deputati che gli chiedono ora cosa succede. Dopo una giornata di silenzio, passata ad alternare sigarette e sciroppo per la gola, Meloni decide di non farla passare in  cavalleria. Di rispondere a Berlusconi con un sottinteso di rabbia covata tutto il giorno. Il tutto nonostante lo stato generale di FdI provi a minimizzare con Ignazio La Russa che parla, senza crederci ovviamente, di un “fake” riferendosi al pizzino incriminato.

 

E allora prima di uscire da Montecitorio con la figlia Ginevra, Meloni detta alle agenzie una dichiarazione esplosiva: “Mi pare che tra quegli appunti mancasse un punto e cioè non ricattabile”. Il lavoro di cucitura durato una giornata va a farsi benedire. La capa decide di “non piegarsi”, di comportarsi da capo della coalizione anche se c’è ancora chi sembra non riconoscerla come tale. E’ una sfida. E’ uno scontro frontale. Salta qualsiasi mediazione e anche l’idea di un incontro chiarificatore vagheggiato dagli sherpa all’inizio della prossima settimana. Niente di tutto questo. Anzi, la scelta dei migliori per formare il governo rivela anche una sorta di “metodo Draghi” che potrebbe essere replicato anche nel futuro governo politico. “Scelgo io chi e dove”, ripete da giorni la futura presidente del Consiglio. E dunque non tanto e solo i posti, ma anche le persone per fare in modo di avere un consiglio dei ministri gestibile. In questo duello, emerge controluce la figura di Matteo Salvini. Alleato per forza di cose della leader di destra. Lo raccontano i siparietti in Transatlantico, ma anche una consuetudine che nelle ultime quarantotto ore si è fatta intesa. Quasi amici al punto di chiederle dove mangiare un po’ di castagne nel fine settimana dalle parti dei Castelli romani.

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.