Marco Pannella con Gianfranco Spadaccia (LaPresse) 

1935-2022

Un ricordo di Gianfranco Spadaccia, leader radicale nei momenti più decisivi

Massimo Teodori

Ha saputo assolvere alle responsabilità radicali con maggiore efficacia e modestia proprio quando al Partito radicale si guardava come a una riserva di buona politica. Non a caso fu segretario negli anni della battaglia sul divorzio e in quelli del terrorismo rosso e nero

Conoscevo Gianfranco dal 1955, anno in cui lui ventenne e io sedicenne ci sedemmo accanto a una assemblea della Associazione italiana per la libertà della cultura di Silone e Chiaromonte. Ne facevamo tutti e due parte, e subito stabilimmo un’amicizia che è andata avanti per settanta anni: io che venivo dalla provincia fui ammaestrato dal fratello maggiore che mi istruì sulla nostra rete politica e culturale che era attiva a Roma: Movimento federalista europeo di Spinelli, Unione goliardica italiana di cui lui era responsabile per Roma, Associazione italiana per l’Educazione demografica di Luigi De Marchi, e Unione dei circoli del cinema. A novembre entrambi firmammo il manifesto costitutivo del nuovo Partito radicale dei liberali e democratici italiani, Gianfranco proveniente dai socialdemocratici, io dalla sinistra della Gioventù liberale: si guardava ai radicali come al motore di una terza forza che aveva diramazioni politiche e culturali  nella società italiana allora dominata dallo stalinismo comunista e dal clerico-moderatismo dei cattolici.

Dopo sei anni il Partito radicale di Pannunzio ed Ernesto Rossi si sfasciò e il nostro gruppetto della sinistra radicale – guidato da Pannella, Spadaccia, Mellini, Bandinelli, i fratelli Rendi e il sottoscritto – ereditò il simbolo della “Marianna” che caparbiamente presentò liste con i nostri nomi alle elezioni comunali di Roma nel 1962 e nel 1965 insieme allo Psiup. Per un quindicennio i radicali furono poche centinaia in tutt’Italia, capaci tuttavia di innescare una politica che, al tempo stesso, continuava la tradizione del mondo laico, innovava nei modi d’azione, nello stile extraparlamentare ma non antiparlamentare, e faceva da riferimento per una sinistra democratica esterna all’egemonia comunista senza ridursi a un ruolo gruppuscolare. Pannella era sì la guida fascinosa del gruppo, ma senza il solido asse di riferimento di Gianfranco, quel variegato caravanserraglio rimasto tale dagli anni Sessanta al referendum del 1974 non sarebbe sopravvissuto. 

La politica dei diritti civili alternativa al compromesso storico, l’unità dei laici e della sinistra sul terreno democratico, l’invenzione di nuovi moduli di laicità attiva, e il rapporto non partitocratico con i partiti tradizionali non sarebbero divenuti i semi di quel che più tardi germogliò intorno ai radicali se non vi fosse stata la costanza, la solidità e il rigore di Gianfranco. E’ stato un intelligente politico, mai professionista della politica, il più appassionato e meno interessato dell’intera storia radicale, il parlamentare più rispettato tra gli eletti della rosa nel pugno, il leader che più ha ascoltato e più è stato ascoltato dalle migliaia di giovani che si sono rivolte ai radicali nella speranza di un paese migliore. Ha rappresentato il leader che ha saputo assolvere alle responsabilità radicali con maggiore efficacia e modestia proprio negli anni in cui al Partito radicale si guardava come a una riserva di buona politica. Non è un caso che proprio lui sia stato chiamato alla segreteria del partito in due momenti cruciali: nel ’67-68 quando la battaglia sul divorzio era al punto decisivo tra successo e fallimento, e nel ’74-76 quando i radicali tenevano fede alle libertà individuali e la Repubblica era stretta tra i terrorismi rossi e neri e i tentativi di repressione fuori dallo stato di diritto. 

La sua disobbedienza civile, per cui da segretario del Pr si fece arrestare insieme ad Adele Faccio come responsabile della clinica per gli aborti del dott. Conciani di Firenze, non è stata mai strombazzata così come altri atti simili per la liberalizzazione della marijuana e la giustizia giusta. In questo, lui fedele fino agli anni Ottanta alla politica pannelliana, non ne è mai stato un passivo esecutore. E quando non è stato convinto della fine del partito della rosa nel pugno a favore del partito transnazionale e delle liste pannelliane, ha preso le sue decisioni con discrezione, senza pubblicità. Non è un caso che da leader radicale riconosciuto con larga popolarità – segnalata dalle sue performance elettorali nelle tre legislature del 1979, 1983 e 1987 – non ha più voluto essere eletto in variopinte combinazioni elettorali fuori dalla tradizione della rosa nel pugno, che ha sempre rappresentato con fermezza e dignità.

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