grafica di Enrico Cicchetti

UNA FOGLIATA DI LIBRI

Lotte e memoria. Storia completa del mondo radicale pannelliano

Matteo Marchesini

E’ in libreria per Sellerio “Il Partito Radicale. Sessant’anni di lotte tra memoria e storia”

Mancava finora una storia completa della galassia radicale pannelliana. E non per caso: è difficile ricondurre a un racconto lineare le mille disparate vicende di un movimento proteiforme, che per non diventare un “partito degli assessori” si è di continuo sciolto e ricomposto come una politica fenice. E’ quindi un libro importante quello di Gianfranco Spadaccia uscito da Sellerio e intitolato “Il Partito Radicale. Sessant’anni di lotte tra memoria e storia”.

Memoria e storia prendono qui avvio dagli organismi studenteschi del Dopoguerra, l’unico luogo in cui i laici non comunisti avevano l’egemonia, e dal primo partito radicale legato al “Mondo”. Spadaccia spiega come un gruppo di giovani vicini a Ernesto Rossi sia passato da queste esperienze all’organizzazione libertaria degli anni 60-70, che cercò di costruire un’alternativa con la sinistra sul modello mitterandiano; descrive il tramonto di quella speranza nel clima del compromesso storico; registra la svolta che lungo gli anni 80 e 90 trasformò la forza nazionale dei diritti civili nell’ong transnazionale dei diritti umani; ricorda infine, sul fronte italiano, le complicate relazioni con Berlusconi e Prodi.

Dopo la morte di Pannella, nota Spadaccia, il movimento radicale si è diviso in tre tronconi: il Partito, che si occupa soprattutto di giustizia; Radicali Italiani, che si concentra sull’antiproibizionismo; e l’Associazione Coscioni, lobby trasversale impegnata sui temi del “fine vita”. Da una parte si rischia la museificazione del lascito pannelliano, dall’altra la riduzione della politica ad associazionismo, o una deriva anarchicheggiante. Certo l’ombra del leader continua a pesare sugli eredi.

Non pesa invece sul suo vecchio compagno Spadaccia: il quale dà a Pannella ciò che gli spetta senza mitizzarlo, anzi restituendolo alla sua umanità contraddittoria, ovvero a un esplosivo miscuglio di intuizioni geniali, esitazioni e cocciuti errori. Per riuscirci ci voleva qualcuno che avesse con Marco un rapporto non nevrotico; così come per raccontare questa storia ci voleva qualcuno che l’avesse sia vissuta da protagonista sia seguita, in alcune fasi, con il distacco dell’osservatore. Il doppio sguardo permette a Spadaccia di tradurre il gergo pannelliano nella lingua comune senza perderne la complessità; e soprattutto gli permette di non perdere mai il filo della narrazione, scegliendo tra gli innumerevoli aspetti quelli che meglio rappresentano la prassi radicale.

Ne cito quattro, a mio parere decisivi: l’insistenza su singole riforme che possano provocare una reazione a catena, anziché su riforme organiche che in un sistema politico quasi sempre immobile sono destinate a fallire; il rifiuto della demagogia, che ha impedito a Pannella di lucrare da “sfascista” sulla crisi dei partiti come hanno fatto Orlando, Bossi, Di Pietro e Grillo; l’attività di controinformazione, che nasce dall’apprendistato giornalistico di molti dirigenti e si traduce nella radio; infine, in senso arendtiano, un’eccezionale creatività politica, ma anche imprenditoriale e mediatica, come dimostra l’opera di Vigevano e Cicciomessere.

Ciò detto, il movimento pannelliano continua a sfuggire a una definizione: si fatica a individuarne il baricentro. Ai liberali di sinistra degli anni 50, che vollero chiamarsi “radicali”, Carlo Antoni fece notare che quel termine era sempre stato associato a qualche grande questione sociale. Qual era la loro “questione”? La domanda è rimasta aperta. Una risposta preventiva l’aveva forse già data, quanto al suo percorso, l’adolescente Spadaccia, che esordì dichiarandosi socialdemocratico. Questa risposta, però, non ha mai convinto il variegato gruppo dirigente radicale. Accettarla lo avrebbe reso di certo meno agile; ma forse anche un po’ meno volubile.