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il caso

Come è nato il pastrocchio sul tetto agli stipendi pubblici che Draghi vuole risolvere

Valerio Valentini

Dopo il via libera della Camera alla deroga inserita nel decreto Aiuti bis interviene il governo con un emendamento soppressivo. Ora il testo potrebbe tornare al Senato per una terza lettura 

Alla fine ai più alti funzionari di Palazzo Chigi tocca recitare la parte dei fessi, di quelli che si sono fatti prendere per il naso. Che non è una cosa onorevole, ma che vale a spiegare il pastrocchio di un emendamento che i collaboratori di Mario Draghi avevano deciso di accantonare e che poi è finito approvato dal Senato. E c’è del paradossale: perché il tutto avviene con un blitz da legge di Bilancio. Solo che stavolta il provvedimento violato è il decreto Aiuti bis, pensato per dare sostegni a imprese e famiglie che vivono nella tribolazione del caro energica, e invece finisce con l’ospitare una norma che elimina il tetto di 240 mila euro per capi delle Forze armate e dirigenti della Pa. Il tutto, allo scadere della legislatura, nel presunto disinteresse generale. Un furto con destrezza, insomma. Riuscito, ma forse non del tutto, se è vero che ora Draghi pretende di correggere questa stortura clamorosa.


E però forse c’è di più, oltre all’ingenuità dei consiglieri del premier. C’è un rapporto ormai logoro tra le strutture del governo, e un malinteso senso di rivincita del Parlamento su un esecutivo che di spazio per la mediazione ne ha sempre concesso  poco. Liberi tutti. E allora ecco l’altra sbavatura, meno evidente ma altrettanto grave. Perché tra gli emendamenti passati senza il volere di Palazzo Chigi ce n’è anche uno, presentato dall’ex grillino Elio Lannutti, che stabilisce fin d’ora la stabilizzazione, a decorrere dal 2027,  del personale assunto a tempo determinato nell’ambito del Pnrr. Misura ragionevole, forse, ma che il governo non aveva intenzione di anticipare così, a quattro anni dalla scadenza dei contratti, anche per non indispettire Bruxelles. E non è un caso che l’altro emendamento che andava nella medesima direzione, che introduceva una bizzarra proroga per gli incarichi dirigenziali del Pnrr, sia stata stoppata in extremis da Palazzo Chigi.


Così non è stato per l’aggiramento del tetto agli stipendi, invece. Che nasce da un emendamento presentato dal senatore forzista Marco Perosino, in cui la deroga al limite dei 240 mila euro era concessa ai soli capi di Polizia, Guardia di Finanza e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, oltre che per i vertici dei servizi segreti. Il Mef non s’oppone, Palazzo Chigi accantona. Ed è lì che succede qualcosa di strano. Succede, cioè, che il dem Luciano D’Alfonso, il presidente della commissione Finanze di Palazzo Madama che sta discutendo il decreto, suggerisce una riformulazione dell’emendamento assai più estensiva, che concede il beneficio anche ai segretari generali dei ministeri e addirittura ai capi dipartimento delle strutture governative: un esercito di decine di funzionari.

 

Lo staff di Draghi è convinto di avere sterilizzato quella proposta. Ma quando la commissione del Senato vota, lo fa col parere favorevole del governo che arriva per bocca del sottosegretario leghista all’Economia, Federico Freni, forte del via libera arrivato dal gabinetto del ministro Daniele Franco. E così in commissione votano tutti a favore. Anche i grillini, redivivi fanatici dell’anticasta; anche i meloniani, che pure starebbero all’opposizione. A quel punto Palazzo Chigi  s’accorge dell’inciampo, prova a intervenire. Ma ormai anche l’Aula del Senato ha votato a favore, tutti concordi. Il danno è fatto. Di chi la colpa? Qual è stavolta, la manina? Chissà.  


Di certo c’è che oltre il danno arriva la beffa, per Palazzo Chigi. Perché la copertura finanziaria per alzare gli stipendi ai pubblici funzionari la dovrà garantire, secondo il Mef, un fondo d’emergenza in dotazione alla presidenza del Consiglio. E però qui forse sta pure la via d’uscita di Draghi. Che a pomeriggio inoltrato mette a verbale coi dirigenti del Tesoro: “Con me a Palazzo Chigi, questa roba non passa”. Ed è una minaccia concreta. Perché per attivare la nuova norma serve un dpcm, un decreto firmato appunto dal premier. “E finché sarò qui, quel decreto non ci sarà”.


Ora, eliminare quell’emendamento nel passaggio del dl Aiuti bis alla Camera imporrebbe una terza lettura al Senato, e i tempi stringono. Però venerdì, nel nuovo dl Aiuti che verrà licenziato dal Cdm, Draghi inserirà un articolo soppressivo che cancelli quella mezza furbata da quattro soldi. Che poi quattro non sono, in effetti: sarebbero centinaia di migliaia di euro.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.