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Perché la politica deve ridare ai giovani il futuro

Vincenzo Galasso

Ritratto di un paese che pensa più alle pensioni che alle incertezze e allo smarrimento di una generazione. Con una proposta: una regola fiscale intergenerazionale, che però non è politicamente conveniente. Tocca agli adulti e agli anziani farsene promotori con i partiti. Se non ora, quando?

La campagna elettorale è tutta incentrata su fisco e pensioni. Come al solito. Il centrodestra propone la flat tax, il centrosinistra il taglio dell’Irpef sui redditi medio-bassi, il Movimento 5 stelle insiste con i cashback. Il centrodestra è molto attivo anche sul fronte pensioni. Berlusconi ha garantito l’innalzamento delle minime a 1.000 euro. Salvini continua a inseguire la riforma Fornero – introdotta ormai dieci anni fa – e prospetta la flessibilità in uscita dal mondo del lavoro con Quota 41, dopo essersi intestato Quota 100 nel 2018. Completa i programmi una lunga serie di bonus e mance elettorali per diverse categorie di persone – inclusi i giovani. Ovviamente, non c’è traccia di discussione sulla sostenibilità finanziaria di queste nuove spese – o minori entrate. Ma il programma del centrodestra prevede la “valutazione dell’impatto generazionale delle leggi e dei provvedimenti a tutela delle future generazioni”. Viste le proposte del centrodestra, facile prevedere quale sarà la valutazione per le future generazioni: lacrime e sangue!

 

Invece, in questa campagna elettorale dovremmo pensare soprattutto ai giovani. Perché? Forse perché noi, adulti e anziani, dovremmo lasciarci ispirare dalle parole di Renzo Piano: “Sono i giovani che salveranno la Terra. I giovani sono i messaggi che mandiamo a un mondo che non vedremo mai. Non sono loro a salire sulle nostre spalle, siamo noi a salire sulle loro, per intravedere le cose che non potremo vivere”. Dovremmo sentire nostro il dovere di aiutare i giovani nel loro viaggio futuro.

 

Affrontiamo subito le obiezioni che si palesano sotto forma di (almeno) due domande. In primis: quando eravamo giovani noi, da chi siamo stati aiutati? E poi: perché dovremmo aiutare i giovani, che hanno tutta la vita davanti a sé – e non sembrano passarsela poi così male, e non proteggere noi stessi – stanchi, anziani, che abbiamo lavorato tutta una vita?

 

Proviamo a usare un po’ di dati per fare un esercizio di presa di coscienza collettiva – almeno per i baby-boomer, ovvero i nati dal Dopoguerra alla metà degli anni Sessanta, e per una parte della generazione X (o Mtv), i nati dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta. Chi è entrato sul mercato del lavoro agli inizi degli anni Sessanta ha vissuto i successivi 35 anni in un paese con un tasso di crescita reale dell’economia pari a quasi il 4 per cento. Un ottimo viatico, se si considera che la crescita della produttività si traduce in crescita dei salari e quindi del tenore di vita dei lavoratori. Inoltre, con un tasso di disoccupazione al 5 per cento, trovare un impiego era semplice. Anche l’imposizione fiscale era molto più vantaggiosa. Con una popolazione giovane e pochi pensionati da mantenere, l’aliquota contributiva previdenziale si aggirava attorno al 20 per cento. Il debito pubblico – ovvero il fardello fiscale che pesa sulle generazioni giovani e su quelle future – era attorno al 30 per cento del pil.

 

Situazione simile, anche se un po’ meno rosea, per chi è entrato nel mercato del lavoro negli anni Settanta – tassi di disoccupazione un po’ più alti, ma ancora buone prospettive di crescita economica davanti a sé: dal 1970 al 2005, il tasso medio di crescita del pil reale è stato del 2,3 per cento. Molti di questi impieghi sono stati creati nella Pubblica amministrazione: alla fine degli anni Ottanta, quasi 3 milioni e ottocentomila lavoratori avevano un posto fisso pubblico. Contemporaneamente, queste generazioni hanno beneficiato dell’aumento della generosità dei sistemi previdenziali e della riduzione dell’età media di pensionamento. In media, chi è andato in pensione fino ad ora ha ricevuto un bel premio, rispetto all’ammontare previsto dal sistema contributivo puro – quello con cui andranno in pensione i giovani di oggi. Un premio pari al 47 per cento della pensione contributiva per i pensionati del 1996, del 36 per cento per chi è andato in pensione nel 2000 e del 25 per cento per chi si è ritirato dal mercato del lavoro nel 2005. Un premio pari al 40 per cento per chi è riuscito ad andare in pensione a soli 55 anni. Anche i pre-pensionamenti hanno favorito i baby-boomer. Nel 1970 si andava in pensione in media a 65 anni, alle fine degli anni Ottanta a 62 anni, a metà degli anni Novanta a meno di 60. Quali sono i numeri per i nati nel nuovo millennio? Difficile prevedere i tassi di crescita economica dei prossimi 35 anni. Ben poche le speranze che saranno vicini al 4 per cento sperimentato dai baby-boomers.

 

 Sicuramente non ci saranno premi al momento di andare in pensione. L’età di pensionamento aumenterà con l’aumentare dell’aspettativa di vita e l’ammontare sarà commisurato ai contributi versati, come previsto dal sistema contributivo. La generosità delle pensioni dipenderà quindi dall’andamento della vita lavorativa: un’occupazione tardiva, con contratti a tempo parziale, e una scarsa crescita economica pregiudicheranno anche la pensione futura. Sicuramente i giovani di oggi hanno un fardello fiscale molto più pesante dei baby-boomer: le aliquote contributive del sistema previdenziale sono pari al 33 per cento, il debito pubblico è pericolosamente vicino al 150 per cento del pil. Inoltre il tasso di disoccupazione è in doppia cifra e anche gli occupati nel settore pubblico sono diminuiti a 3 milioni e 300 mila.

 

Dunque i baby-boomer sono stati fortunati ad aver vissuto un periodo – forse l’unico in Italia – di forte crescita economica. E si sono aiutati da soli, attraverso politiche fiscali che redistribuivano a loro favore sostanziali risorse a scapito delle generazioni giovani e future: debito pubblico, pensioni, pre-pensionamenti. Dall’alto dei loro diritti acquisiti, delle pensioni, dei risparmi accumulati, delle rendite di posizione, conquistate in un mercato del lavoro diventato sempre più duale, i baby-boomer dovrebbero provare a modificare il proprio atteggiamento nei confronti dei giovani. Meno aiuti all’interno della propria famiglia, diretti solo ai propri figli, e più opportunità di crescita per i giovani. Meno paternalismo.

 

Demografia politica 

Se non ce ne faremo carico noi, adulti e anziani di oggi, non sarà certo la politica ad aiutare i giovani. I partiti rispondono a logiche elettorali. E la demografia politica è contro i giovani. Il 25 settembre saranno quasi 8 milioni i potenziali elettori giovani (18-30) e ben 14 milioni i potenziali elettori ultrasessantacinquenni. Nel 1950, gli elettori giovani erano quasi 10 milioni, gli anziani meno di 4 milioni. Nel 2050, ci saranno solo 6 milioni di giovani e 18 milioni di anziani. Quando la piramide demografica si capovolge, e il rapporto tra anziani e giovani aumenta a dismisura, la politica disegna le sue proposte elettorali per le generazioni dominanti. Gli anziani, appunto. Non certo i giovani. Ma non è solo una questione di numeri – di potenziali elettori. Gli anziani sono più appetibili anche perché più facili da persuadere e da mobilitare. Raggiungere gli anziani durante una campagna elettorale è semplice. Basta usare i media tradizionali: giornali, tv, radio. Catturare la loro attenzione è altrettanto agevole. Basta parlare di pensioni – magari promettendo un aumento delle minime, e di prime case – impegnandosi a non tassarle. Per i lunghi anni del pensionamento gli anziani sono concentrati su questi – e pochi altri – temi. Un elettorato stabile nel tempo e omogeneo nelle esigenze. Inoltre, ben inseriti nel sistema socio-economico del paese, gli anziani non conoscono astensionismo. Fare breccia sui (pochi) giovani elettori è cosa ben più complessa. Vanno raggiunti soprattutto sui social, utilizzando strumenti di campagna elettorale più innovativi, come il programmatic advertisement, che consente di collocare dei brevi video di pubblicità elettorale su siti web. Catturare la loro attenzione non è per nulla agevole. I giovani non sono monotematici, ma quanto mai eterogenei nei loro interessi. Non esiste una misura di politica economica che vada bene per tutti, alla stregua dell’aumento delle pensioni per gli anziani. I giovanissimi potrebbero essere interessati alla scuola o all’università, ma comunque per poco tempo – il tempo di diplomarsi o laurearsi. Poi gli interessi si sposterebbero altrove. Altri giovani potrebbero essere alle prese con l’entrata nel mercato del lavoro o con il tentativo di metter su famiglia. Tematiche che richiedono politiche spesso divisive, si pensi al mercato del lavoro, e comunque di breve durata – perché risolto (o meno) un problema, lo sguardo dei giovani si volge altrove. Inoltre, sentendosi un po’ ai margini del sistema socio-economico, i giovani sono poco invogliati a recarsi alle urne. Ma il loro astensionismo ne riduce ancora di più il peso elettorale, e quindi l’appeal del voto dei giovani presso i partiti.

La demografia politica dunque li condanna inesorabilmente. E i giovani non sono neanche riusciti a creare un movimento culturale per perorare la propria causa. Malgrado l’esistenza di tanti gruppi giovanili nell’associazionismo, non ci sono mai stati imprenditori politici o culturali che siano riusciti a mettere la battaglia per i giovani al centro dell’agenda politico-culturale del nostro paese. L’ultimo decennio ha visto (giustamente) imporsi il tema della condizione femminile, fino all’esplosione del movimento del #metoo. Altrettanto giustamente, negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, si è imposta all’attenzione la condizione razziale con il movimento #blacklivesmatter. La condizione giovanile invece non trova spazio. Ai giovani non è concesso neanche il politicamente corretto riservato alla questione femminile, che molte volte sfocia in un irritante pink-washing. Ai giovani non sono concesse neanche le – per quanto inutili – vetrine.

 
Situazione giovanile

Eppure la situazione dei giovani in Italia merita attenzione. Prima della pandemia e ancora di più oggi. Partiamo dalla scuola. I risultati dei test Invalsi del 2019 mostravano che il 40 per cento dei nostri alunni delle scuole medie e delle superiori ha una preparazione inadeguata in matematica e un terzo ha gravi insufficienze in italiano. Con queste premesse non è sorprendente che l’Italia sia in testa alla classifica europea dei giovani Neet (Neither in employment nor in education and training). Non lavoratori, non studenti e neanche impegnati nella formazione professionale. Nel 2019, il 18,1 per cento dei giovani italiani in età compresa tra i 15 e i 24 anni era un Neet, contro una media del 10,1 per cento tra i paesi dell’Unione Europea, del 12,1 per cento in Spagna, e del 5,7 per cento in Germania. Ancora peggiore la statistica per i giovani italiani tra i 20 e i 34 anni: un Neet ogni quattro giovani, contro una media europea del 14,5 per cento. Anche la povertà assoluta in Italia è più diffusa tra i giovani che tra gli anziani: 11,4 per cento per i minori d’età, 9,1 per cento tra i giovani adulti (18-34 anni) e 4,8 per cento tra gli ultrasessantacinquenni. La povertà è più diffusa tra le famiglie monoreddito con più figli che tra gli anziani. In questo scenario, è ripartita l’emigrazione, soprattutto tra i giovani. Nel decennio 2010-2019 più di mezzo milione di italiani è emigrato alla volta di Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera e persino Spagna. Nel 2019, 68 mila giovani in età compresa tra i 18 e i 39 anni hanno scelto di emigrare all’estero. Come se una città di soli giovani – delle dimensioni di Potenza, Cosenza o Pavia – decidesse di staccarsi dallo Stivale. La pandemia ha ulteriormente peggiorato la già precaria situazione giovanile. L’Italia è stata tra i paesi che hanno chiuso più a lungo le scuole, affidandosi quasi completamente alla didattica a distanza.

    

Le perdite di conoscenza accumulate dai nostri studenti durante il lockdown. Il debito pubblico, un gigantesco mutuo che le generazioni future dovranno rimborsare. Proposta da campagna elettorale: una regola fiscale intergenerazionale, che disciplini in maniera automatica l’allocazione della spesa pubblica

  

Ma la Dad ha presto mostrato i suoi limiti, in termini di minor crescita dell’apprendimento degli studenti, di aumento delle disuguaglianze educazionali, come mostrato dai risultati delle recenti prove Invalsi. Secondo un recente studio, ci vorrebbero 80 ore addizionali di lezione frontale per recuperare le perdite di conoscenza accumulate dai nostri studenti nel solo trimestre da marzo a giugno 2020. In mancanza di queste ore di recupero, la perdita di capitale umano si tradurrà in una riduzione dei salari futuri superiore al 2 per cento.

  

Cosa fare per i giovani

Cosa possiamo fare noi adulti e anziani per aiutare i nostri giovani? Gli obiettivi da raggiungere sono chiari: riattivare la crescita economica dopo due decenni di stagnazioni, ridurre e rimodulare la spesa pubblica a favore di politiche giovanili e diminuire il debito pubblico. Vediamo perché. 
Un esercizio complesso, ma molto di moda tra gli economisti, è quello di provare a misurare il grado di mobilità intergenerazionale – ovvero se i figli si trovano a vivere in una condizione socio-economica superiore, uguale o peggiore dei genitori. Esistono due misure di mobilità: relativa e assoluta. Nel primo caso, si prova a comparare la posizione relativa nella scala socio-economica dei figli – ad esempio appartenere al 20 per cento più ricco della popolazione – con quella dei genitori. Anche in un paese che non cresce, ci può essere mobilità intergenerazionale relativa, se alcuni giovani riescono a migliorare la propria posizione, mentre altri – per definizione – la perderanno. In questo gioco a somma zero, i giovani competono tra di loro – spesso con l’aiuto dei genitori, che usano i propri risparmi, le proprie rendite di posizione, i propri network per provare ad agevolare i figli. Molto più interessante considerare la misura di mobilità assoluta, che compara gli standard di vita dei figli con quelli dei genitori. In questo caso, tutti possono vincere, se il tenore di tutti i giovani migliora, rispetto a quello dei propri genitori. Ebbene, un recente studio mostra che la mobilità intergenerazionale assoluta dipende quasi totalmente dalla crescita economica. Quasi tutti i baby-boomer, che hanno vissuto in un periodo di forte crescita economica, hanno avuto un tenore di vita più alto dei propri genitori. Se non si migliora la produttività economica e quindi la crescita nel nostro paese, i giovani di oggi saranno la prima generazione ad avere un tenore di vita mediamente inferiore a quello dei propri genitori. 
In Italia, la spesa pubblica è molto elevata ed è fortemente sbilanciata verso la spesa previdenziale, che assorbe il 15,7 per cento del pil, mentre alla spesa in istruzione tocca solo il 4,3 per cento. L’allocazione della spesa, insieme alla composizione dell’imposizione fiscale, contribuisce a designare il sistema di redistribuzione intra-generazionale – ovvero tra persone con redditi diversi – e inter-generazionali – ovvero tra persone di età diverse, della politica fiscale. Uno studio della Commissione europea calcola il valore atteso dei trasferimenti e delle imposte che persone nate in anni diversi si troveranno rispettivamente a ricevere e pagare nel corso della loro vita. Oggi, un neonato in Italia riceve in dote un saldo fiscale netto atteso negativo: nell’arco della sua vita si troverà a pagare circa 120 mila euro in più di quello che riceverà. Per le generazioni meno giovani, il saldo fiscale era ben più favorevole. Urge dunque ridurre e rimodulare la spesa pubblica. 
Il debito pubblico italiano ha raggiunto il 146,8 per cento del pil, diventando così il terzo più alto nei paesi Ocse dopo Giappone e Grecia. Si tratta di un gigantesco mutuo che le generazioni future dovranno rimborsare. Persino i fondi del Next Generation Eu – un programma che ha un nome evocativo per i giovani – rischiano di contribuire alla crescita del debito. Dei 191,5 miliardi di euro assegnati all’Italia, poco più di 122 miliardi arrivano sotto forma di prestiti. A cui vanno aggiunti 30 miliardi del fondo aggiuntivo istituito dal governo – e finanziato a debito, e le ulteriori risorse che potrebbero essere necessarie per realizzare gli obiettivi del Pnrr nei prossimi anni. Con questi impegni, i forti incrementi del disavanzo pubblico registrati nel 2020 e nel 2021 a causa degli aumenti della spesa corrente, e l’incertezza per la situazione energetica internazionale, il rischio che il rapporto tra debito pubblico e pil aumenti ulteriormente è tangibile. Più tasse future per i giovani.

  

Una regola fiscale intergenerazionale

Il 2022 è l’anno europeo dei giovani. Ma per noi è soprattutto un anno elettorale. Per neutralizzare gli incentivi elettorali che spingono a dimenticarsi dei giovani e a corteggiare solo gli elettori anziani è necessario dotarsi di una regola fiscale intergenerazionale, che disciplini in maniera automatica l’allocazione della spesa pubblica. Nella sua formulazione più semplice, la regola fiscale stabilirebbe che per ogni euro addizionale allocato a programmi di spesa pubblica, che sono principalmente finalizzati agli anziani, un euro addizionale dovrebbe essere allocato a programmi di spesa finalizzati ai giovani. Queste risorse non possono essere finanziate a debito. Questa regola fiscale intergenerazionale non avrebbe il merito di aumentare la crescita economica, di ridurre o di rimodulare la spesa pubblica esistente, poiché inciderebbe solo sulle misure future di politica fiscale. Ciononostante avrebbe molti vantaggi. In primo luogo, contribuirebbe a rimodulare nel tempo la spesa fiscale a favore dei giovani, agendo sui flussi di spesa futuri. Rappresenterebbe quindi un contrappeso alle dinamiche demografiche che, aumentando il numero di anziani, automaticamente tendono ad aumentare anche la spesa totale di programmi quali pensioni, sanità, non autosufficienza. In secondo luogo, aumenterebbe il costo opportunità di concedere mance elettorali agli anziani. Senza poter finanziare a debito e dovendo corrispondere l’equivalente anche ai giovani, ogni euro promesso (e speso) alle persone anziane costerebbe il doppio. E richiederebbe un (politicamente doloroso) aumento delle imposte oppure una – politicamente ancor più dolorosa – riduzione della spesa pubblica esistente. Immaginiamo di applicare la regola fiscale alla politica annunciata in campagna elettorale da Silvio Berlusconi di aumentare tutte le pensioni a mille euro. Per ogni euro in più speso per far fede a questa promessa elettorale, un euro dovrebbe essere versato – in maniera reale, non figurativa – in un eventuale fondo previdenziale per i giovani. Invece dei 20-30 miliardi stimati, il costo della promessa sarebbe di 40-60 miliardi – troppo anche per una campagna elettorale. In terzo luogo, sposterebbe la spesa pubblica verso programmi a favore dei giovani, quali asili-nido, scuola, università, ricerca, reddito di formazione, che possono avere un impatto positivo sulla crescita economica – a differenza della spesa previdenziale. 

Nessun partito si farà spontaneamente promotore di una simile regola fiscale intergenerazionale. La demografia politica non lo rende elettoralmente conveniente: meglio dare agli anziani che ai giovani. A meno che non siano proprio gli adulti e gli anziani – i baby-boomer e la generazione X – a rendersi conto che il futuro dei nostri giovani potrebbe essere peggiore del nostro presente. E a chiedere alla politica di farsi carico seriamente delle istanze dei nostri giovani. E quale momento migliore per chiedere ai politici che durante una campagna elettorale…

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