il discorso del premier a Rimini

L'argine Draghi e il futuro

Claudio Cerasa

La famosa agenda è stata, al fondo, più difensiva che costruttiva: contro i nemici del mercato e dell’Europa. Un metodo di ragionevolezza. Ma cosa c’è oltre l’emergenza? L’eredità di Draghi. Oltre l’ottimismo

Un argine. E poi? Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, capo dell’esecutivo per gli affari correnti, ieri al Meeting di Rimini ha offerto qualche elemento ulteriore per arricchire di dettagli quella che tra gli osservatori della politica viene comunemente e a volte banalmente definita l’“agenda Draghi”. Nell’agenda Draghi, ha ricordato ieri l’ex governatore della Bce, c’è cura per i giovani, c’è amore per l’Europa, c’è rispetto per i vincoli, c’è coscienza sul debito, c’è passione per la globalizzazione, c’è attenzione per la concorrenza e c’è consapevolezza che in un paese molto industrializzato e molto ambizioso come l’Italia lo stato non debba occupare con frequenza eccessiva gli spazi riservati al mercato. L’agenda Draghi, al netto della fuffa, è tutto questo, è la capacità di declinare con intelligenza e ambizione un pragmatismo visionario, con poche parole, con molto ancoraggio ai fatti, con molta concretezza negli interventi e  con grande chiarezza nella collocazione internazionale.

 

Ma l’agenda Draghi, come è risultato chiaro anche ieri nel bellissimo discorso pronunciato dal capo del governo uscente, sconta un limite importante, che è stato per forza di cose anche il vero limite dell’esecutivo di grande coalizione che ha guidato l’Italia nell’ultimo anno e mezzo. E il limite è questo: l’agenda Draghi è stata, al fondo, un’agenda più difensiva che costruttiva. Un’agenda il cui fine ultimo è stato ricostruire gli argini politici, economici e finanziari del nostro paese, per proteggere con forza l’Italia non solo dai nemici esterni ma anche da quelli interni. L’agenda Draghi, in questo senso, è stata un argine contro i nemici dell’Europa, è stata un argine contro i nemici della Nato, è stata un argine contro i nemici della scienza, è stata un argine contro i nemici del mercato, è stata un argine contro i nemici dell’euro, è stata un argine contro gli integralisti dell’ambientalismo. E’ stata come uno scudo, l’agenda Draghi, capace di mettere l’Italia al riparo dai suoi vizi, dalle sue fragilità, dalle sue debolezze. E in fondo è questa la vera eredità che l’ex capo della Bce consegna ai suoi successori.

 

La consapevolezza che un paese molto indebitato come l’Italia non può pensare, come sosteneva con un sorriso Ronald Reagan, che il debito pubblico sia abbastanza grande da badare a se stesso. La consapevolezza che un paese molto indebitato come l’Italia non può pensare, come un tempo sostenevano i populisti, che il modo migliore per liberare le energie del nostro paese sia quello di fottersene sovranisticamente di indicatori come lo spread. La consapevolezza che un paese a crescita bassa, come l’Italia, non può permettersi di mettere a rischio la sua reputazione rinegoziando i suoi patti con l’Europa. La consapevolezza, infine, che un paese che ha 730 miliardi di euro di debito pubblico nella pancia della Bce non può più permettersi, come un tempo facevano i populisti, di considerare i banchieri centrali come dei nemici del popolo e degli affamatori dei cittadini, e deve fare di tutto, a ogni costo, whatever it takes, per estrarre una certa dose di ragionevolezza da entrambi gli schieramenti, provando a far convergere partiti molto distanti l’uno dall’altro su posizioni condivise sui grandi temi.

 

E’ stato questo il vero punto di forza dell’agenda Draghi, che più che a un’agenda in realtà ha assomigliato molto a un metodo, a uno stile, a una capacità di porre la guida di un paese distante anni luce dall’agenda social che tutti i politici inseguono. Ed è questa la vera eredità che Draghi consegna ai suoi successori. Un’eredità che costituisce, in fondo, il vero punto di forza di questa campagna elettorale: la presenza di uno scudo che impedisce anche ai partiti autolesionisti di fare del male a se stessi, oltre che all’Italia, e la consapevolezza da parte dei mercati – che al contrario di quanto si sospettava non sono crollati all’indomani della caduta di Draghi – che per quanto le cose possano andare male per l’Italia non potranno andare così male, anche grazie alla presenza di un altro scudo, quello della Bce, attivabile solo a condizione che l’Italia continui a fare i suoi compiti a casa. 


“Sono convinto – ha detto ieri Draghi al Meeting – che il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico, riuscirà a superare quelle difficoltà che oggi appaiono insormontabili, come le abbiamo superate noi l’anno scorso. L’Italia ce la farà, anche questa volta”. Argine, scudo e ottimismo. E poi? E qui vale la pena mettere a fuoco il vero non detto dell’agenda Draghi: la capacità di incidere in modo massiccio sui grandi dossier legati alla costruzione di un’Italia futura. E’ stata come un argine, l’agenda Draghi, ha permesso all’Italia di ritrovare un equilibrio, di ristabilire una rotta, di seguire una nuova direzione. Ma all’agenda Draghi, Pnrr a parte, che non è poco, è mancata una visione di fondo, al di là dei grandi assi di riferimento. E dunque, sì, grande attenzione al mercato, grande amore per la globalizzazione, grande passione per la concorrenza, ma i grandi dossier, quelli non legati alle risoluzioni delle emergenze, sono rimasti lì, appesi. La rete unica si trova al punto di partenza. La vendita di Mps è stata un flop. L’operazione Ita rischia di restare fermare al palo.

 

La legge sulla Concorrenza è risultata timida. La riorganizzazione della burocrazia non è stata all’altezza delle sfide del presente. La delega fiscale è rimasta un’occasione persa. Le leggi di Bilancio hanno lasciato briglia sciolta al Parlamento, ai corporativismi, alle consorterie. L’agenda Draghi, dunque, verrà ricordata per essere stata un’agenda che ha rimesso l’Italia sui giusti binari della crescita, dell’ambizione, della scommessa sul futuro, e bene ha fatto ieri Draghi a ricordare i numeri positivi dell’Italia di oggi (crescita acquisita nel 2022 del 3,4 per cento, pil tornato ai livelli pre pandemia, tasso di occupazione che ha toccato i livelli più alti di sempre).

 

Ma l’agenda Draghi, che altro non è in fondo che una formidabile agenda dei doveri, fatta di regole, di contratti, di vincoli, di non possumus, verrà ricordata anche per essere stata un’agenda ricca di occasioni perdute. Lo scudo, in un anno e mezzo, ha funzionato in modo formidabile, ed è quello scudo che in fondo permette all’Italia di oggi di essere percepita come stabile, forte, resistente e persino resiliente. Ma oltre allo scudo, oltre all’argine, c’è una costruzione che manca, una spada che non si vede, e la vera sfida, come ha in fondo ricordato ieri lo stesso Draghi, è quella: trasformare la nuova credibilità acquisita non in uno scudo per nascondere i propri vizi ma una nuova opportunità per far crescere l’Italia. Dopo lo scudo, la spada. Il futuro dell’Italia, in fondo, si spiega anche così.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.