L'incontro

Meloni, Salvini e Berlusconi si vedono. I nodi da risolvere: premiership e collegi

Gianluca De Rosa

L'appuntamento alle 17 negli uffici della Lega alla Camera, sede istituzionale come aveva chiesto la leader di FdI. Non c'è un ordine del giorno, ma oltre i programmi le questioni da risolvere riguardano il candidato premier e gli uninominali. Meloni vuole certezze sulle regole del gioco. Lo strappo? Difficile, ma non impossibile

Su una cosa, intanto, le hanno dato retta. Ci si vede in campo neutro. Non a villa Certosa, né ad Arcore, né a villa Grande, il vertice del centrodestra, come aveva chiesto la leader di FdI, si svolgerà “senza aperitivi e tartine” in una sede istituzionale. L’appuntamento, variazioni dell’ultimo minuto permettendo, è per le 17 negli uffici della Lega di palazzo Montecitorio. Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi si vedranno qui. Ma la scelta del luogo ha tutta l’aria di una concessione formale, un contentino, perché sulle questioni importanti l’accordo sarà molto complicato. Ci si guarda in cagnesco. I commessi di Montecitorio hanno già preparato i tappi: le urla della Capa potrebbero sentirle fino in Campidoglio. Le frizioni scorrono soprattutto sull’asse FdI-FI. 

 
Le questioni cruciali sono sempre le stesse: premiership e collegi. “In qualche modo – si vocifera – dovranno accordarsi, a meno che Meloni non abbia capito che non governa comunque e decida di andare da sola”. Chissà. Su entrambi i punti, collegi e premiership comunque, FdI chiede il rispetto delle regole di sempre. In caso di vittoria, il presidente è il leader del partito che prende più voti e i collegi uninominali, quelli per i quali si corre in coalizione, si suddividono in maniera proporzionale in base alla media di un carnet di sondaggi considerati “affidabili”.


Sul primo punto da FI continua a non arrivare il via libera. Il Cav. proietta se stesso a palazzo Chigi per interposto Tajani, nel senso di Antonio, vicepresidente di FI, gradito per il suo passato europeo anche al Ppe.

 
La preoccupazione è che Giorgia Meloni a palazzo Chigi allarmi i mercati, Bruxelles, le cancellerie europee. Berlusconi e Tajani lo ripetono in coro: “Giorgia sarebbe una premier autorevole”, ma allo stesso tempo in privato confermano i timori. Ad un amico, Tajani avrebbe confessato: “Ma nessuno ce l’ha con lei, lo diciamo per tutelarla, per evitare l’attacco mediatico che stiamo già subendo e che danneggia tutti”. Un altro senatore di FI spiega: “Dobbiamo essere rassicuranti”. Il tempismo, va detto, non aiuta Giorgia Meloni. Il nuovo governo potrebbe giurare proprio a inizio ottobre, nei giorni del centenario dalla marcia su Roma. E la prospettiva di una “nipotina del Duce” a palazzo Chigi,  senz’altro interpretazione faziosa, ha però una forza narrativa irresistibile e pericolosa per il centrodestra. “Giorgia non  spaventa nessuno, è solo che la competizione c’è sempre, anche tra fratelli”, diceva ieri Ignazio La Russa.

 

La Lega intanto nicchia. Salvini prosegue con il mantra: “Chi avrà un voto in più, avrà l’onore e l’onere di indicare il premier”. Nuova formula, sulla scia di quella usata nei giorni della crisi di governo: “Faremo il bene dell’Italia”. La giusta dose di ambiguità per lasciare aperte tutte le porte al segretario . Anche se in FdI sanno benissimo che al motto salviniano manca il soggetto: chi avrà un voto in più s’intende il partito o più partiti che sono d’accordo tra loro?


La questione collegi è altrettanto  bollente. Berlusconi chiede che gli uninominali siano suddivisi pariteticamente tra le tre principali sigle della coalizione, con l’unica concessione di offrire parte dei propri agli alleati centristi: Noi con l’Italia di Maurizio Lupi e l’Udc di Lorenzo Cesa. Per capirci, stando per esempio all’ultimo sondaggio La7-Swg del 25 luglio – dove Fd’I ha il 25 per cento, la Lega il 12,4 e FI il 7,1 – se si seguisse il criterio chiesto da Meloni a Fd’I spetterebbero il 56 per cento dei seggi, alla Lega il 28 e a FI il 16. Con il metodo desiderato da FI, invece, sarebbero spartiti un terzo a testa. Insomma, per il partito di Giorgia Meloni, pur con un’eventuale prelazione sui “collegi più sicuri”, sarebbe una concessione significativa. Ieri da ambienti di Fd’I filtrava la disponibilità a scendere al massimo al 45 per cento dei collegi. Il nodo è complesso. La faccenda per FI è decisiva. Tajani, che ieri pomeriggio ha incontrato i coordinatori regionali del partito per compilare le liste, lo sa bene. Il partito è molto indietro nei sondaggi (vale la metà del risultato raggiunto nel 2018 quando prese il 14 per cento), c’è un Parlamento quasi dimezzato e una classe dirigente in fuga perché difficilmente tornerà in parlamento attraverso la quota proporzionale, mentre continua l’emorragia dei parlamentari vicini alle ministre Gelmini (sono quasi tutti usciti) e Carfagna (oggi potrebbe essere il giorno decisivo per nuovi addii) che se ne sono andate dopo il draghicidio. La ripartizione paritetica degli uninominali con il resto della coalizione permetterebbe di recuperare posti preziosi. C’è anche un ragionamento politico dietro. Circa questo: “Alla Meloni conviene guardare a noi perché queste elezioni si giocheranno sui moderati. Lo ha detto anche Letta, vuole i nostri voti, e userà Calenda e i nostri ex ministri come mosche cocchiere per prenderli. Diranno: i moderati siamo noi!”. Poi si ricordano i precedenti. Quando la Lega valeva il 4 per cento Berlusconi decise di candidare ben tre leghisti alla guida di Piemonte, Lombardia e Veneto. “Lo fece e fu lungimirante, perché la politica non è fatta solo di numeri, anche se ovviamente non si possono ignorare”.