Letta, indagine su una leadership con gli "occhi di tigre"

Luciano Capone

L’Ucraina, la fine del "campo largo" e una campagna elettorale nel nome di Draghi. Come il segretario ha preso decisioni nette e impresso una svolta al Pd, riuscendo a mantenere l'unità di un partito storicamente diviso e litigioso

Circa un anno e mezzo fa, la situazione per il Pd era questa: Giuseppe Conte era il “punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste”, secondo la definizione del segretario Nicola Zingaretti, e si escludeva qualsiasi altro nome per guidare il governo “anche nel caso di Draghi, anche se venisse Superman”, secondo le parole dell’allora vicesegretario Andrea Orlando. Ora però il Pd di Enrico Letta ha rotto con il M5s colpevole, dice il segretario, di aver “innescato la crisi”, considera Conte come la kryptonite e si presenta alle elezioni come il partito di Draghi.

 

La rottura con il M5s di certo non è stata cercata. Nei giorni della crisi del governo Draghi, Letta è stato accusato di non aver detto una parola sul comportamento di Conte. Fino all’ultimo minuto il segretario del Pd ha tentato, silenziosamente e con il cacciavite, di ricomporre la maggioranza e tenere unito il “campo largo”. Ma alla fine ha preso atto della realtà e pronunciato parole inequivocabili contro la “decisione assurda e folle, di congedare un presidente del Consiglio come Mario Draghi”, senza fare alcuna distinzione o graduatoria dell’irresponsabilità tra M5s e Lega-FI. Il campo largo è un camposanto, e non c’è alcuna possibilità di resuscitarlo: “Le responsabilità dei partiti che non hanno votato la fiducia sono di tutti, non mi si venga a fare classifiche di responsabilità perché gli italiani non lo capirebbero”, ha detto alla segreteria del partito. La fine del governo Draghi non può essere considerato come un incidente di percorso, ma è un nuovo discrimine. “La campagna elettorale non sarà altro rispetto a quello che è accaduto” in Parlamento perché si tratta di “fatti che hanno sconvolto i rapporti tra partiti e cittadini” facendo saltare i vecchi schemi.

 

Pur non avendo esattamente il fisico di Apollo Creed (da Superman a Rocky l’immaginario è fermo agli anni Ottanta), Letta invita ripetutamente i deputati del Pd a tirare fuori gli “occhi di tigre” per spiegare su tutti i media “chi è responsabile di aver fatto cadere il governo Draghi”, ricordare “senza nessun infingimento” chi ha “affossato l’esperienza di governo che stava facendo uscire l’Italia dalla crisi”, producendo così “danni all’economia” che ricadranno sulle fasce più deboli. Nessuna differenza, quindi, tra Conte e la coppia Salvini-Berlusconi. Il Pd si presenterà come il partito di Draghi contro quelli che l’hanno fatto cadere: “Gli italiani dovranno scegliere sulle decisioni prese” sul voto di fiducia.

 

Naturalmente, la linea di Letta non è una scelta ma una presa d’atto di quanto accaduto. Eppure non era così scontata. Nel Pd sono tante le anime che hanno mostrato comprensione per le ragioni del M5s. Goffredo Bettini, ad esempio, ha difeso il M5s dicendo che Conte è stato “maltrattato”. Andrea Orlando, che nel frattempo è diventato ministro del Lavoro del governo di Superman, aveva dichiarato che “senza il M5s al governo è a rischio l’agenda sociale”. E anche dopo la fine del governo Draghi dopo un “colpo di pistola” sparato dal M5s, sempre per stare a una metafora di Letta, ieri c’era chi come il franceschiniano Luigi Zanda ha tentato di lasciare aperto uno spiraglio dicendo che con il M5s si può fare “non un’alleanza strategica, ma tattica”.

 

Letta, con l’intervento in segreteria, ha chiuso definitivamente a questa possibilità. Ma l’aspetto interessante è che, almeno al momento, è riuscito a farlo mantenendo l’unità del partito. Evitando, cioè, le discussioni e i litigi tra correnti, a colpi di interviste e pizzini, che hanno caratterizzato la vita del Pd in passaggi del genere. Sicuramente il potere di compilare le liste dei candidati a poche settimane dal voto gioca a favore del segretario, ma non è l’unico snodo in cui Letta è riuscito a prendere una posizione netta e a tenere unito il partito. Basti pensare alla linea assunta sulla guerra in Ucraina, pienamente allineata a quella di Draghi e quindi all’Europa e alla Nato. Da allievo di Beniamino Andreatta, a Letta è venuto naturale posizionarsi senza ambiguità contro Putin e dalla parte del fronte euro-atlantista ma non era affatto scontato che riuscisse a farlo senza divisioni in un partito storicamente legato al pacifismo cattolico e postcomunista.

 

Non è certo uno che anticipa i tempi, ma ha saputo fare scelte chiare quando la realtà si è presentata come un bivio. In un annetto, Letta ha vinto un po’ di elezioni amministrative e impresso una svolta al Pd evitando lacerazioni. Ora ha anche un programma, che è l’agenda Draghi. Nelle prossime settimane dovrà lavorare su una nuova coalizione draghiana e uno slogan migliore degli “occhi di tigre”.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali