Un bilancio

Il draghicidio è una pazzia, il voto no

Claudio Cerasa

Oltre la fiducia c’è di più. Punti di forza, chance perse, argine al populismo: cosa resterà del Draghi politico (e poco tecnico)

Il futuro è incerto, conviene fare un bilancio. E dunque, cosa è stato finora il governo Draghi? Facile. E’ stato prima di tutto un governo politico, quello di Draghi, e non a caso oggi i suoi nemici interni sono tutti quei partiti che per molto tempo hanno scelto di abbeverarsi alla fonte dell’anti politica: dal Movimento 5 stelle fino alla Lega. E’ stato, almeno finora, un governo tutt’altro che tecnico quello di Mario Draghi – che oggi si ritrova nelle condizioni di affrontare quella che potrebbe essere la sua ultima fiducia, ma chissà – e non a caso oggi tutti i partiti che fanno parte della legislatura si trovano ad avere una connotazione diversa rispetto a quella che avevano un anno e mezzo fa.

Il Pd ha cambiato segretario e forse cambierà alleati (speriamo). La Lega non ha cambiato segretario ma su molti temi ha cambiato linea (vedremo se il cambiamento è sincero o è solo un algoritmo). Forza Italia non ha cambiato leader ma ha scelto di costruire un rapporto simbiotico con la Lega, non intravedendo più grandi distanze sul terreno dell’Europa (per quanto?). Il M5s ha cambiato leader, passando da un reggente a un presidente, e in parte ha cambiato anche pelle, come dimostra la scissione compiuta da Luigi Di Maio, espressione di un grillismo diverso rispetto a quello originario (il problema del M5s non è il Superbonus, è la realtà). I partiti di centro, a loro volta, hanno mutato la loro ragion d’essere, perché un conto è essere un centro che interpreta l’anti populismo un altro è essere un centro che interpreta la stagione del post populismo (parola d’ordine: aggregarsi).

 

Persino il principale partito d’opposizione, Fratelli d’Italia, è stato costretto a cambiare la sua natura, almeno in parte, e di fronte alla ferma posizione dell’Italia sulla guerra, sulla difesa dell’Ucraina, per una volta il partito di Meloni ha messo da parte la sua vocazione al complottismo (tra il putinismo e l’atlantismo nessun dubbio su dove stare). E’ stato, dunque, un governo molto politico e poco tecnico quello di  Draghi ed èun governo che ha svolto un ruolo simile a quello che hanno i comandanti delle grandi petroliere quando devono affrontare una manovra complicata: spostare la petroliera da una direzione all’altra non è semplice, ci vuole tempo, occorre tempra, serve fatica, ma una volta che la nave ha ripreso il suo percorso, ed è stata rimessa in salvo, si può guardare al futuro con più fiducia, sapendo che la velocità di crociera può cambiare ma sapendo che sarà difficile spostare nuovamente la petroliera nella direzione sbagliata. E’ stato tutto questo il governo Draghi, il cui governo, che non sappiamo se oggi volgerà al termine, verrà ricordato, comunque finirà oggi, per essere stato alcune cose precise. Per essere stato un governo  capace di esprimere una delle maggioranze più larghe della storia della Repubblica in una fase molto complicata per l’Italia (pandemia e guerra). Per essere stato un governo riuscito nell’impresa di aver cambiato in modo repentino la politica estera del nostro paese (meno dragoni, meno putinismi). Per essere stato un governo capace di condurre i populisti a cancellare alcune  battaglie tossiche portate avanti dagli stessi populisti (dalla rimozione dell’abolizione della prescrizione fino alla revisione dei limiti per l’estrazione di gas dal sottosuolo italiano).


Verrà ricordato per essere riuscito a far firmare a quasi tutto il Parlamento un contratto con l’Europa della durata di sei anni per riformare l’Italia con i soldi europei (il vincolo esterno non è più lì a ricordarci la presenza del demonio ma è lì a ricordarci che, come da teoria di Joseph Stiglitz “esistono dei vincoli che limitano le scelte e definiscono l’insieme delle alternative disponibili”). Verrà ricordato per tutto questo, il governo Draghi. Verrà ricordato anche per alcune occasioni perdute, come i ritardi sulla rete unica (se salta il governo salta anche la rete unica), come i ritardi sulla cessione di Ita (se salta il governo salta anche l’operazione con Lufthansa), come i ritardi sulla vendita di Mps (la cui mancata vendita è forse uno dei veri flop del governo), come sulla concorrenza (nella bozza del ddl ci sono misure importanti, servizi pubblici locali, trasporto pubblico, taxi; ma sono tutte deleghe e tenendo conto dei tempi della legislatura si farà fatica ad attuarle entro la fine dell’anno), come la scarsa capacità di fare della nuova affidabilità dell’Italia un elemento di attrazione per gli investimenti dall’estero (se salta il governo salta anche l’operazione Intel). Ma verrà ricordato soprattutto per molto altro. Per aver costretto per molto tempo i partiti a mettere da parte la fuffa e a concentrarsi sulla realtà provando a trasformare il pragmatismo europeista nella spina dorsale di una nuova stagione forse irreversibile: quella dei doveri e quella della responsabilità. Vale quando si parla di giustizia, quando si parla di energia, quando si parla di ambiente, quando si parla di atlantismo, quando si parla di capacità di far funzionare in modo non troppo farraginoso la macchina dello stato (nel 2020, l’Italia ha occupato l’ultimo gradino del podio tra i paesi capaci di spendere i fondi strutturali europei, gettando all’aria 25 miliardi e 166 milioni di euro di fondi Ue tra il 2014 e il 2020, due settimane fa la Commissione europea ha comunicato che l’Italia ha raggiunto tutti i 45 obiettivi del Pnrr relativi al primo semestre 2022 e ha inviato la seconda rata da 24,1 miliardi di euro). Non sappiamo quale sarà l’esito della votazione di oggi. Sappiamo che il M5s la fiducia al cosiddetto dl Aiuti non la vorrebbe votare. Sappiamo che il M5s la fiducia al governo in un secondo momento la vorrebbe però votare. Sappiamo che il centrodestra di fronte alle bizze grilline un tentativo di andare a votare lo vorrebbe fare. Sappiamo che il Pd una tentazione di non proseguire oltre se il M5s dovesse uscire ce l’avrebbe eccome. Sappiamo che Draghi una volontà di farsi da parte in caso di fine di questa maggioranza ce l’avrebbe eccome. Sappiamo però che il M5s ha una paura matta delle elezioni e che la sua scommessa di fare le monellerie si basa sull’assunto che un governo continuerà a esserci. Sappiamo tutto questo, così come sappiamo cosa significa votare contro questo governo,  ma sappiamo anche che una volta che si mette in discussione l’esistenza di un esecutivo, nato per unire e non per disunire, quell’esecutivo di fatto non c’è più e per quanto vi siano condizioni  che suggeriscono di andare avanti, vincoli del Pnrr che suggeriscono di non fermarsi, politiche energetiche che suggeriscono di restare concentrati  è difficile non vedere l’evidenza: l’unica speranza di avere un Draghi capace di essere di nuovo l’interprete di una solida unità nazionale è darsi appuntamento alla prossima legislatura. Le ferite sono  lì. E la fiducia in fondo oggi è quasi un dettaglio.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.