Perché, dopo il voto, il bicchiere di Draghi è ancora mezzo pieno

Claudio Cerasa

Meno estremismo e più pragmatismo, sindaci che vogliono governare le proprie città con un’agenda simmetrica a quella del premier, populisti sgonfiati dalle urne. E una nuova centralità del paese in Europa. Punti da mettere insieme 

Il risultato delle amministrative che si sono chiuse ieri con i ballottaggi in alcuni capoluoghi importanti come Verona, Parma, Piacenza, Como, Catanzaro offre molti spunti di riflessione. Spunti di riflessione sullo stato di salute delle forze politiche (la forza di Giorgia Meloni è dovuta più alle qualità del suo partito o alle difficoltà dei suoi alleati? al Pd basta un po’ di radicamento in più al nord per considerarsi competitivo contro un centrodestra che quando si presenta unito raramente perde?). E spunti di riflessione anche sullo stato di salute della leadership di Mario Draghi.

   

    

Ci sarà tempo per capire se il campo largo del centrosinistra riuscirà a somigliare più a un campo da calcio che a un campo da calcetto, ci sarà tempo per capire se la difficoltà incontrata dal centrodestra di presentarsi come qualcosa di diverso da una semplice espressione geografica continuerà a persistere ancora a lungo, ci sarà tempo per capire se il flop del M5s indurrà Giuseppe Conte a uscire dal governo dopo l’estate e ci sarà tempo per capire se i soggetti che compongono le cinquanta sfumature di centrismo continueranno a chiedere unità contro i populisti mentre naturalmente marciano divisi. Ma al netto di questo, se si accetta di osservare il contesto politico emerso dalle elezioni amministrative, si capirà con chiarezza che ci sono almeno tre ragioni per cui il bicchiere di Mario Draghi si presenta più nella forma del bicchiere mezzo pieno che nella forma del bicchiere mezzo vuoto.

Il primo punto riguarda l’assenza di una coalizione talmente forte da essere percepita come maggioritaria, e l’assenza di una coalizione capace di dettare l’agenda di governo è un fattore che può consentire all’esecutivo di lavorare agli ultimi mesi di legislatura senza doversi preoccupare in modo eccessivo di far prevalere le logiche della mediazione su quelle del buon governo. Il secondo punto riguarda la presenza tra i sindaci eletti o rieletti di un numero molto consistente di amministratori locali desiderosi di governare le proprie città con un’agenda simmetrica a quella proposta da Draghi al governo. E dunque, meno estremismo e più pragmatismo, meno antieuropeismo e più efficienza e, per essere concreti, meno legami con il populismo, di ogni genere, e più legami con i vincoli del Pnrr, mossi dalla consapevolezza che le sfide dei prossimi anni, per le città come per i governi, si giocano non facendo cambiare direzione al treno ma facendo andare avanti il treno più velocemente possibile. La terza ragione politica per cui il bicchiere di Draghi, all’indomani delle amministrative, è mezzo pieno più che mezzo vuoto è legata al fatto che nelle ultime due settimane i partiti che hanno sofferto di più alle urne sono proprio quelli che, dopo aver provato a governare l’Italia tra il 2018 e il 2019, negli ultimi due anni hanno subìto più degli altri l’agenda Draghi.

Sono partiti come il M5s (zeru tituli alle amministrative) e come la Lega (la cui coalizione ha ottenuto spesso buoni risultati non grazie a Salvini ma nonostante Salvini) che nel migliore dei casi hanno archiviato parte del proprio populismo passato dando la fiducia al governo Draghi e che nel peggiore dei casi hanno votato i provvedimenti del governo fingendo di non averlo mai fatto. Il bicchiere mezzo pieno per Draghi, però, non lo si vede soltanto mettendo a fuoco ciò che è successo alle amministrative, che contano quello che contano, ma lo si osserva in modo più chiaro e deciso mettendo a fuoco la centralità oggettiva che ha oggi il governo all’interno dell’Europa. Una centralità che esiste a livello politico, perché l’Italia che spesso si autodescrive come divisa è il paese più unito d’Europa nel sostegno all’Ucraina, e nessun altro paese dell’Unione europea ha una maggioranza così ampia a sostegno della resistenza ucraina e un’opposizione così vicina alle posizioni della maggioranza.

Una centralità che esiste a livello diplomatico, perché fino a qualche settimana fa l’Italia era l’unico grande paese dell’Unione europea a sostenere l’ingresso repentino dell’Ucraina nell’Ue, mentre ora è tutta la Ue a sostenerne l’ingresso – e a sostenere anche l’ingresso della Moldavia. Una centralità che esiste a livello economico perché Draghi è stato uno dei primi leader europei a scommettere sul price cap, il limite massimo al prezzo di acquisto del gas russo, e nonostante i borbottii dell’Olanda, paese che spesso dice quello che la Germania pensa ma non può dire fino in fondo, è possibile che il price cap si trasformi in una ulteriore sanzione per  Putin, molto dolorosa per la Russia (sperando di non doversi davvero aggiornare a ottobre, come emerso dalle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo).

Una centralità che esiste anche a livello geopolitico, per così dire, perché i nuovi equilibri energetici determinati dall’invasione dell’Ucraina fanno dell’Italia un paese chiave nel futuro approvvigionamento dell’energia europea (nessun paese europeo ha tanti gasdotti quanti ne ha l’Italia) e fanno dell’Italia un interlocutore prezioso anche agli occhi di partner strategici come gli Stati Uniti (nessun paese europeo ha la forza di essere un hub energetico nel Mediterraneo come l’Italia). Sintesi: una tornata elettorale che non consegna a nessuno lo scettro del vincitore. Un insieme di fattori che ha punito i partiti di governo più ambigui sull’agenda Draghi. Un’opposizione mai così vicina alle posizioni atlantiste del governo. Un insieme di sindaci desiderosi di costruire il proprio percorso in simbiosi con quello del Pnrr. Un contesto europeo in cui l’Italia si presenta come uno dei paesi più stabili d’Europa. Mettete insieme i puntini e capirete perché il giorno dopo le amministrative il bicchiere di Draghi è più mezzo pieno che mezzo vuoto.
 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.