Mario Draghi (Ansa) 

Il grande centro è l'area Draghi o l'area Tafazzi?

Claudio Cerasa

La scissione del M5s inaugura una nuova stagione al centro della quale c’è la permanenza duratura di Draghi a Chigi. Le divisioni da superare, le trasformazioni sagge e quella calamita che manca per una nuova tenda

La scissione dal Movimento 5 stelle messa in campo da Luigi Di Maio apre ufficialmente una nuova fase politica che coincide con il secondo tempo di una partita iniziata alla fine di gennaio, quando Mario Draghi tentò senza successo la sua scalata al Quirinale. In quell’occasione, i partiti della maggioranza si divisero anche al loro interno tra coloro che sognavano di vedere Draghi al Colle, per avere l’ex governatore della Bce per più tempo possibile alla guida delle istituzioni del paese, e coloro che sognavano invece di lasciare Draghi a Palazzo Chigi per ridurre il più possibile il suo tempo di permanenza alla guida del paese.

Persa la sfida del Quirinale, il partito per Draghi si è ritrovato a virare su un orizzonte decisamente più complesso che coincide con uno scenario difficile da realizzare ma non impossibile da immaginare: creare le condizioni affinché il presidente Draghi abbia il massimo sostegno per continuare a fare per più tempo possibile quello che sta facendo oggi non solo in questa legislatura ma anche nella prossima. All’interno di questa legislatura, l’area Draghi, tra una scissione e l’altra, ha in questo momento in Parlamento numeri che renderebbero il governo potenzialmente indipendente dai partiti più estremi (alla Camera, Draghi, mettendo insieme FI, Pd, Italia viva, Coraggio Italia e il Gruppo misto, avrebbe una maggioranza pari a 346 deputati, 30 in più della maggioranza minima, mentre al Senato, senza Lega e M5s, la maggioranza oggi avrebbe 154 voti). Ma lo scenario più interessante da mettere a fuoco non è ciò che potrebbe capitare in questa legislatura, dove il partito di Salvini da oggi è il partito più rappresentativo della maggioranza e chissà che essere alla guida di questo governo non acceleri il processo di responsabilizzazione della Lega, ma è ciò che potrebbe capitare nella prossima legislatura. Ed è ciò che in particolare dovrebbe capitare affinché coloro che a gennaio hanno tentato di avere Draghi al Quirinale possano avere qualche speranza di non far muovere Draghi da dove si trova oggi.

 

Al netto delle dichiarazioni del segretario del Pd, Enrico Letta, il vero campo largo da mettere a fuoco non è quello che riguarda il perimetro sempre più esile della coalizione di centrosinistra ma è quello che riguarda il perimetro potenziale dell’area Draghi. E se in Parlamento quell’area è ben rappresentata non si può dire che fuori dal Parlamento quell’area goda di buona salute. Non gode di buona salute perché i soggetti più affezionati all’area Draghi hanno al momento percentuali molto basse (Italia viva), hanno traiettorie che non si riescono a incrociare (Calenda e Renzi), hanno progetti che non si riescono a esplicitare (Beppe Sala), hanno percorsi che non si riescono a decifrare (Di Maio ha davvero un seguito elettorale?), hanno sostenitori che non si riescono a emancipare (il ministro Giorgetti), hanno ammiratori che non si riescono ad affrancare (i governatori della Lega) e hanno a disposizione coalizioni che più passa il tempo e più tendono ad assomigliare  a un campetto da calcetto che a un campo da calcio a undici (il centrosinistra).

Eppure la scomposizione del M5s – uno dei molti effetti politici prodotti da Mario Draghi che durante la sua stagione a Palazzo Chigi ha visto manifestarsi una doppia scissione nel M5s (prima Dibba, ora Di Maio), una sostituzione alla guida del Pd (da Zingaretti a Letta), un cambio di linea nella Lega (più europeismo e meno salvinismo), dove si dimostra che i governi che lottano contro l’anti politica aiutano la politica a emanciparsi  – costringe coloro che considerano il modello Draghi l’unica alternativa nella prossima legislatura al modello Meloni a riorganizzare le idee, a cambiare musica e a decidere cosa fare da grandi. E decidere cosa fare da grandi significa iniziare a entrare in un’ottica meno divisiva, meno dispersiva, meno disarticolata, più aggregante, più federativa, più costruttiva, mossi dalla consapevolezza che non trovare un punto di incontro tra partiti europeisti, anti nazionalisti e anti sovranisti è il modo migliore per trasformare l’area Draghi in qualcosa di pericolosamente simile all’area Tafazzi. Il tempo c’è, meglio pensarci prima.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.