Mario Draghi (Ansa)

Caro Draghi, tassare gli extra profitti è un precedente pericoloso

Carlo Stagnaro

Forse la tassa genererà un gettito cospicuo. Certamente determinerà conseguenze tossiche sul funzionamento dei mercati dell’energia e darà luogo a un contenzioso nel quale lo Stato rischia di trovarsi soccombente

L’aliquota dell’imposta sugli extraprofitti delle società energetiche crescerà dal 10 al 25 per cento. Forse la tassa genererà un gettito cospicuo. Certamente determinerà conseguenze tossiche sul funzionamento dei mercati dell’energia e darà luogo a un contenzioso nel quale lo Stato rischia di trovarsi soccombente, con la prospettiva dell’ennesimo buco nel bilancio pubblico tra qualche anno. 

 

Il presupposto è che le imprese operanti nei settori energetici abbiano goduto di utili straordinari e che, dunque, debbano contribuire alla copertura degli interventi di sostegno a famiglie e imprese. Si possono avere idee differenti in relazione all’opportunità di tassare in via straordinaria i “windfall profit”. Il problema è che il provvedimento disegnato dal governo prende per base imponibile la differenza tra le operazioni attive e passive ai fini dell’Iva nel periodo ottobre 2021-marzo 2022 rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente. Nei fatti, dunque, si tratta di una base imponibile più simile ai ricavi che agli utili: non è un caso se, a dispetto del modo in cui la tassa è stata presentata, l’espressione “profitti” o “extraprofitti” non compare nel testo della legge. Infatti, studiosi con idee differenti – come Dario Stevanato, contrario a questa forma di imposizione, e Tommaso di Tanno, in astratto favorevole – ne hanno denunciato sue storture.

 

Solo per citarne alcune: colpisce i proventi di operazioni straordinarie, l’aumento dei ricavi connesso all’aumento delle vendite, le entrate legate a business diversi da quelli energetici e quelle maturate all’estero e, in alcuni casi, persino le stesse accise che vengono versate dalle imprese. Le imprese target non sempre navigano nell’oro. Per esempio, il recente rapporto Acer sul funzionamento dei mercati dell’energia elettrica mostra come i margini dei venditori di energia elettrica siano diventati negativi a partire dalla metà del 2021: per loro, l’energia è un costo. Eppure, potrebbero cadere sotto la mannaia della tassa per effetto dei maggiori volumi venduti, anche per effetto del fatto che il periodo di riferimento coincide con una fase di lockdown. Peggio ancora: i produttori di energia rinnovabile, a causa della precedente manovra di gennaio, dovranno restituire parte dei loro ricavi. Ma, nel frattempo, questi potrebbero entrare nell’imponibile nella tassa, col paradosso che i rinnovabilisti dovranno versare le imposte su somme che non sono nella loro disponibilità. 

 

Una tassa così mal disegnata non solo rischia l’incostituzionalità. Può avere implicazioni ben più estese. Nella versione iniziale con l’aliquota del 10 per cento, il governo stimava (forse per eccesso) un gettito superiore a 4 miliardi di euro: dunque l’incremento dell’aliquota ci porta nei dintorni dei 10 miliardi. Come si può pensare che le imprese siano in grado di sostenere investimenti di fronte a un prelievo di queste dimensioni, oltretutto retroattivo?

 

Proprio ieri il Ministro della Transizione, Roberto Cingolani, ha illustrato a Repubblica quali e quanti interventi saranno necessari: decine di gigawatt di fonti rinnovabili, infrastrutture per l’importazione e il trasporto di gas, potenziamento delle reti elettriche, efficientamento energetico degli edifici e delle industrie. Le risorse sottratte alle imprese a fini puramente redistributivi ne indeboliranno sia la capacità di finanziare nuovi investimenti, sia la fiducia in un paese che dimostra una volta di più di considerare il profitto alla stregua di un reato da punire. 

 

E questo ci porta all’ultimo punto: perché non solo tale tassa mette in difficoltà la strategia di diversificazione dal gas russo e di decarbonizzazione. Essa lancia – anzi, conferma – un messaggio più ampio: l’Italia non è un paese per imprese. Una multinazionale che ha la sede in Italia adesso dovrà contribuire alla nuova tassa in ragione dei suoi ricavi globali, e non solo di quelli realizzati in Italia. Altro che concorrenza fiscale sleale e global minimum tax: questa imposta equivale a un cartello affisso alla frontiera. Abbandonate ogni speranza o voi che entrate.
 

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