(foto Ansa)

verso lo strappo?

Draghi va da Mattarella e poi avvisa la maggioranza: "Così non va, e io non ci sto"

La cronaca del vertice fra il presidente del consiglio e i rappresentanti della maggioranza

Luciano Capone e Valerio Valentini

Il premier sale al Colle, poi striglia i capidelegazione: "Gli accordi in cdm non si rinegoziano". Dimissioni sul tavolo

In quei dieci secondi, quelli che hanno diviso la requisitoria dalle repliche, in quel silenzio, c’era tutto il senso di un disorientamento: “Così – confesserà più tardi uno dei ministri presenti – non lo avevamo visto mai”. Li ha voluti tutti a Palazzo Chigi, i capi delegazione dei partiti, ieri pomeriggio. Ma prima, Mario Draghi s’era recato al Quirinale, aveva anticipato a Sergio Mattarella la sua volontà. E così il premier, ritornato da Bruxelles, s’è dedicato alle tensioni che funestano la sua maggioranza. “Non è pensabile che dopo aver trovato un accordo in Consiglio dei ministri, i partiti rimettano in discussione quelle intese”. L’innesco della crisi è stato il rodeo notturno sul Milleproroghe, il governo che va sotto quattro volte in poche ore, i deputati della stessa maggioranza, il leghista Igor Iezzi e il dem Ubaldo Pagano, che quasi vengono alle mani. Ma prima ancora era stato Francesco Giavazzi, consigliere economico del premier, a segnalare l’allarme, dopo che mercoledì s’era ritrovato ad assistere, durante un vertice a Montecitorio, all’ennesima impuntatura leghista sulla delega fiscale. “Ma non è possibile che ora, dopo che avevamo  convenuto un percorso, si pongano veti sulla riforma del catasto”, ha ribadito Draghi.

 

Ad ascoltare il premier, uno accanto all’altro, i capi delegazione. “Siete voi che dovete garantire al governo i voti in Parlamento, oppure non si può andare avanti”. E loro, dopo avere incassato, provano a reagire, a far valere le loro ragioni.  Andrea Orlando obietta che “a creare instabilità è il fatto che al termine di ogni Cdm c’è qualcuno che pone distinguo”. Stoccata che Giancarlo Giorgetti para appigliandosi alla contingenza favorevole: “A dire il vero l’emendamento al Milleproroghe sull’Ilva era stato concordato qui a Palazzo Chigi, ma poi siete stati voi ad affossarlo”. La renziana Elena Bonetti chiede  “maggiore condivisione”, stessa obiezione avanzata da Stefano Patuanelli del M5s. Mariastella Gelmini  offre una soluzione: “Il ministro D’Incà andrebbe aiutato: magari una riunione mensile coi capigruppo migliorerebbe la gestione dei lavori in Aula”. E Draghi ascolta, annota. Ma ribatte: “Sulla legge di Bilancio abbiamo fatto un percorso improntato alla massima concertazione. Poi però mi sono ritrovato coi parlamentari che tuonavano per il ritardo con cui era stata inviata alle Camere”.

 

C’è un metodo, da ripensare. Ma nella ridefinizione degli  assetti  Draghi vuole evitare la palude e rifugge il fantasma dei tatticismi: “Perché questo governo è nato per fare le cose, per decidere, per agire”. Ed è per questo  che non è concepibile, per il premier, che perfino sui provvedimenti che investono le scadenze del Pnrr si rischi l’inconcludenza. E invece la delega fiscale è ferma, la legge sugli appalti è rimasta sepolta al Senato per mesi, quella sulla Concorrenza è gravata da 150 audizioni e minacce d’ostruzionismo.  Il tutto alla vigilia di un Cdm, quello di oggi, che potrebbe costituire la prima tappa di una sorta di exit strategy, per Draghi. Il quale, di fronte alle tensioni crescenti, sta prendendo in seria considerazione l’idea di anticipare l’approvazione del Documento di economia e finanza (Def). La scadenza naturale resta   l’11 aprile, e per ora è su quella data che al Mef stanno lavorando. Ma tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre sta maturando l’idea di dare un segnale politico forte: dimostrare, cioè, che dal sentiero di finanza pubblica indicato nel Documento programmatico di Bilancio (Dpb) il governo non ha  intenzione di deviare. Contro il caro bollette l’esecutivo metterà già oggi   7 miliardi di euro sul tavolo, ma senza scostamenti di bilancio, attingendo  ad alcune poste non utilizzate e usando risorse prodotte da una contingenza favorevole: l’Italia ha registrato una crescita reale del 6,5 per cento, superiore di mezzo punto alle previsioni della Nadef, e anche una crescita nominale più alta dovuta all’inflazione. Di qui, una riduzione del debito pubblico più rapida, al 150 per cento nel 2021 anziché al 153,5 stimato nel Dpb. Parte di questo margine verrà usato contro il caro-energia, ma senza alcuna deviazione rispetto alle prospettive di risanamento dei conti pubblici. E l’anticipo del Def, oltre che un segnale interno per i partiti, potrebbe servire all’esterno per fugare i dubbi dei  mercati sull’Italia.
 

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