Trappola per Draghi. “Rimanga a Chigi”, gli dicono i partiti terrorizzati dal governare

Salvatore Merlo

Dallo spettro delle trovate di marketing è scomparsa la frase “elezioni anticipate”. Partiti afflitti dall’ansia dell’esistere preferiscono farsi da parte e chiamare qualcun altro a fare quello che loro non vogliono (o non sanno) fare. È la ciclica caccia al tecnico

Aumentano i contagi, il Recovery è un malloppone complesso, l’economia potrebbe riprendersi ma anche no, provvedimenti impopolari s’intravvedono dietro l’angolo, chissà. Il futuro in pratica è più che mai avvolto dalla nebbia dell’incertezza. E poiché governare per i partiti della Seconda Repubblica è sempre stata una fatica e una responsabilità da scansare in periodi pericolosi, roba da consegnare ai Ciampi o ai Mario Monti, poiché insomma se non si possono fare quote 100 e redditi di cittadinanza, se non si può far saltare una vendita di Alitalia e accollarsi qualche miliardo di spesa pubblica, se in sostanza non si può scialare e dare spettacolo col mohito in mano allora è meglio astenersi, ecco che praticamente tutti i partiti d’Italia in queste ore stanno ripetendo la stessa cosa: “Mario Draghi resti a Palazzo Chigi”. Ancora. Anche dopo le elezioni del 2023. E non è certo un caso se dallo spettro delle trovate di marketing – che non mancano mai – è scomparsa la frase “elezioni anticipate”. Fateci caso. Persino Giorgia Meloni la ripete sempre meno, e sempre più spesso dà l’impressione di pronunciarla con la stessa convinzione con la quale  gli indiani dei film western gridano: “Augh!”. I pellerossa lo fanno perché devono. Altrimenti non sarebbero i Sioux.

     

Tutti dicono “Draghi rimanga dov’è”. Lo vogliono sequestrare a Palazzo Chigi, per poter prendere vita, loro, dopo di lui. Dopo che le cose sono state aggiustate. O dopo che si sono sfasciate, in modo tale da poter dare la colpa del disastro a qualcun altro. Va avanti così da un bel po’ di tempo. Secondo uno schema ormai talmente ripetitivo da essere persino noioso, dopo circa trent’anni di Seconda Repubblica. Partiti afflitti dall’ansia dell’esistere, o immersi in umbratili complessi, confondono il principio di rappresentanza con quello di rappresentazione: se non possono fare spettacolo, se non hanno nulla da vendere, preferiscono farsi da parte e chiamare qualcun altro a fare quello che loro non vogliono (o non sanno) fare. Ed ecco la giostra, la ciclica caccia al tecnico.

   

Un fenomeno che a pensarci bene ha qualcosa di strano. Se non di grottesco. È come se ogni partito dicesse: “Lo sappiamo, dalla nostra fabbrica non escono che automobili disastrose, utilitarie immonde, serbatoi che perdono benzina, ma voi votateci lo stesso perché poi dopo le elezioni faremo venire  degli operai e degli ingegneri da fuori, gente che se ne intende sul serio. Mica come noi”. Arrivata a un tale livello di autosfiducia, qualsiasi fabbrica normale chiuderebbe. Persino i rivenditori dei concessionari si vergognerebbero ad averci a che fare. E invece la politica italiana va avanti così da trent’anni. Sembra a tutti normale. Cominciò Giuliano Amato, con l’Italia che stava praticamente fallendo. Gli fecero fare il prelievo forzoso dei conti correnti. Quello mise un po’ a posto le cose, e i partiti ripresero a scialare come nulla fosse. Senza riformare niente. Fino all’inevitabile, ovvia, crisi successiva. Quando toccò a Carlo Azeglio Ciampi. Stessa storia. Come Monti, che con lo spread a 550 era stato invocato dai partiti morti di paura per fare quelle riforme che loro non avevano fatto nei vent’anni precedenti. Poi lo hanno scaricato come un rifiuto solido urbano. Ora tocca a Draghi. “Rimanga a Palazzo Chigi”. Nella mitologia classica la tecnica è simboleggiata da Prometeo. Viene da pensare che la politica sia invece Epimeteo. Il fratello così furbo da essere praticamente scemo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.