la manovra

Il Pd sceglie l'immobilismo sul Reddito di cittadinanza per non scontentare il M5s

Valerio Valentini

Orlando teme l'asse riformista col centrodestra, e a Draghi preferisce parlare di Superbonus e sussidi ambientalmente dannosi. Le tensioni al Nazareno per gli emendamenti alla Finanziaria. Il nodo delle coperture. Ma Letta deve scegliere: per salvare il Rdc dagli opposti estremismi, serve imporre una svolta a Conte

Daniele Manca, capogruppo del Pd in commissione Bilancio, davanti alla buvette del Senato mostra l’aria di chi non ha dubbi: “Il potenziamento degli incentivi al lavoro è il passo decisivo per evitare che il Reddito di cittadinanza resti quel che è: e cioè un sussidio”. Antonio Misiani, che del Pd è responsabile economico, conferma che “la riduzione dell’aliquota marginale sul reddito da lavoro per i percettori del Rdc è una misura opportuna”. E però, nell’ultima riunione che ha portato alla definizione degli emendamenti dem alla legge di Bilancio, Valeria Fedeli e Tommaso Nannicini hanno dovuto brigare non poco, per fare in modo che almeno qualcuna di queste istanze venisse rivendicata dal partito. 

Cosa che alla fine  è accaduta. E così, nelle 118 pagine di emendamenti depositate a Palazzo Madama, c’è anche una proposta, a prima firma Fedeli, che riguarda il Rdc. Il che ha permesso, al netto delle questioni di merito, anche di evitare che Andrea Orlando finisse schiacciato dal peso di un paradosso tutto interno al suo ministero. Perché del decalogo elaborato dal comitato scientifico da lui nominato a marzo per la revisione della misura tanto cara al M5s, nulla era finito in manovra. Al punto che molti dei membri di quella commissione, e la stessa professoressa Chiara Saraceno che la presiede, hanno iniziato a denunciare  l’insensatezza del loro operato. Ecco allora che in extremis si è deciso di intervenire: e, tra gli emendamenti presentati dal Pd, c’è anche quello che propone la riduzione del 40 per cento dell’aliquota marginale sul reddito da lavoro per i percettori del reddito. Un modo per evitare un cortocircuito: se per ogni euro guadagnato attraverso un lavoro regolare, il beneficiario del sussidio oggi, con l’aliquota al 100 per cento, se ne vede sottratto uno in tasse, preferisce rigettare le offerte di lavoro che gli arrivano e accontentarsi del Rdc. “E’ così che il Reddito s’è trasformato in un disincentivo al lavoro”, dice Manca. Il quale, però, ci tiene a mettere le mani avanti: “Noi, come Pd, sulla Finanziaria daremo priorità a un altro punto: riportare l’affidamento dei percettori fragili del Rdc  in capo ai comuni e ai servizi sociali, sottraendoli ai centri per l’impiego, com’era del resto nell’architettura del Rei”.

Scelta legittima, certo, sia pure assai meno incisiva. E che però tiene evidentemente conto anche di preoccupazioni tutte politiche, che dagli uffici del ministero di Orlando sono state recapitate al Nazareno e di lì ai senatori dem. Ché insomma, va bene riformare il Rdc, ma stiamo attenti a non metterci nelle condizioni di doverlo fare col sostegno del centrodestra e contro il M5s, che di quella misura è strenuo difensore. 

E qui sta il senso dell’immobilismo del Pd. Perché riformare il Reddito, che pure fu introdotto col voto contrario dei dem in Parlamento, significherebbe far vacillare l’asse rossogiallo alla vigilia della sfida sul Quirinale. E così quella che a Valeria Fedeli pare  un’opportunità (“Se noi presentiamo emendamenti intelligenti per riformare il Rdc potenziandone la parte delle politiche attive possiamo approvarli anche col sostegno di una parte del centrodestra che si oppone alla retorica salviniana del ‘bruciamo tutto’”), a un pezzo di dirigenza del Pd pare invece uno spauracchio da evitare. Tanto più che in effetti lo scenario tracciato dalla ex ministra dell’Istruzione non pare  remoto. Luigi Marattin, deputato di quella Italia viva che una proposta analoga a quella del Pd l’ha già presentata, conferma che “al di là di chi mette la prima firma su quell’emendamento, noi siamo pronti ad approvarlo”. E lo stesso ragionamento trapela  dalla delegazione ministeriale di Forza Italia: e infatti ieri Mariastella Gelmini, e con lei i capigruppo azzurri, quando hanno proposto correzioni del Rdc a Mario Draghi e Daniele Franco, si sono sentiti dire, dal ministro dell’Economia, che “ci sarà grande rispetto per le volontà del Parlamento”.

Sempre all’interno dei non ampi margini di spesa residui: circa 600 milioni su quasi 30 miliardi di Finanziaria. “E il problema delle proposte della commissione Saraceno – dice Misiani – è che sono  costose”. Vero. E magari Orlando dirà che è per questo che, oltre alle risorse sulla scuola, ieri il Pd a Mario Draghi ha preferito domandare del Superbonus e dei sussidi ambientalmente dannosi, anziché del miglioramento del Rdc.  Ma su come recuperare alcune risorse e al contempo correggere le distorsioni del Reddito, il governo aveva già imboccato la strada giusta, nella prima bozza della legge di Bilancio. Prevedeva una décalage mensile del sussidio. E che fosse una soluzione corretta, e inspiegabilmente abortita, lo ha confermato  anche Banca d’Italia,  auspicando la reintroduzione di “una progressiva decurtazione dell’assegno indipendentemente dal rifiuto di un’offerta di lavoro, come già avviene per la Naspi”. Forse anche su questo il Pd dovrebbe fare i conti con un M5s riottoso. Ma varrebbe la pena di indispettire Giuseppe Conte, se ciò valesse a migliorare il Rdc. O no?

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.