Ministero non pervenuto

A Bari la propaganda di Pechino arriva nelle scuole medie

Giulia Pompili

Studi il mandarino e  consulti la mappa della grande Cina. In Italia gli istituti Confucio sono sempre più potenti

A Bari vecchia, nella scuola secondaria di primo grado San Nicola, da metà ottobre gli alunni ogni venerdì hanno un nuovo corso curriculare: il mandarino. Ma non ci sarà un docente selezionato da un concorso pubblico, quindi con l’accreditamento del ministero dell’Istruzione, a insegnare ai ragazzi tra gli 11 e i 14 anni la lingua e la cultura cinesi. In un servizio realizzato da Telenorba sull’iniziativa, si vede la prof.ssa Chen Qian mostrare agli alunni una cartina geografica con la Cina al centro, e con annessi tutti i territori rivendicati dalla Repubblica popolare cinese: Taiwan, gran parte del Mar cinese meridionale, parte del Mar cinese orientale.

    

In evidente contraddizione con il curriculum scolastico delle scuole medie italiane, per gli insegnanti degli istituti Confucio non è possibile separare l’istruzione da quella che definiremmo propaganda. Ma il problema è a monte. “È tutto concertato con il governo, il ministero degli Esteri e quello dell’Istruzione”, dice al Foglio Vitandrea Marzano, dirigente del gabinetto del sindaco Antonio Decaro sin dal 2015. Bari è una delle prime città gemellate con Guangzhou, e dopo un viaggio in Cina nel 2019 lo staff di Decaro ha organizzato un momento celebrativo per il 35° anniversario del gemellaggio, con due mostre organizzate dai cinesi della Hande Culture (sul cui sito internet campeggia una foto con il ministro Di Maio), il mandarino alla scuola di Bari vecchia che si trasformerà presto in una nuova aula Confucio (quindi con docenti pagati da Pechino) e “speriamo di riuscire nel dottorato congiunto tra il nostro Politecnico e la Sichuan University of Technology, dobbiamo aspettare, ad aprile, il parere del ministero dell’Università”, aggiunge Marzano. 

L'influenza degli istituti Confucio nelle università italiane   

Sin da metà settembre il Foglio prova ad avere delle risposte dal ministero guidato da Maria Cristina Messa sulla criticità degli istituti Confucio all’interno delle università. A numerose domande circostanziate (esiste una mappa dei fondi cinesi? esiste un monitoraggio sulla libertà accademica in quegli istituti che usano fondi cinesi?) l’ufficio stampa del ministero ha risposto l’8 ottobre telefonicamente, citando l’articolo 33 della Costituzione, ultimo comma (“Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”) e poi via email, con il link della pagina in cui vengono registrati tutti gli accordi internazionali con gli atenei italiani (solo nel 2020, 30 accordi tra università italiane e cinesi). A ulteriori richieste, non è stato possibile contattare il dicastero. Il ministero dell’Istruzione, alla stessa domanda sul monitoraggio di scuole medie e superiori, ha risposto al Foglio che “sta lavorando alla richiesta”. 

  
Gli istituti Confucio sono stati creati nel 2004 dallo Hanban, una istituzione che oggi ha cambiato nome ma che resta emanazione dell’Ufficio di propaganda del Partito comunista cinese, e il cui compito è diffondere la lingua e la cultura cinesi all’estero. Nei decenni, gli istituti Confucio sono diventati gli unici enti governativi stranieri a essere entrati direttamente dentro alle Università – in Italia perfino nelle scuole medie e superiori. Mentre l’Italia è uno dei pochissimi paesi occidentali dove il dibattito sull’influenza cinese all’interno dei centri di ricerca, delle accademie e perfino nelle scuole non è mai decollato a livello istituzionale, all’estero il problema sta venendo fuori sempre di più: le aziende cinesi che investono nelle università e nella ricerca all’estero sono guardate con sospetto; gli accordi universitari vengono rallentati o eliminati. 

All'estero chiudono alla propaganda cinese

A oggi, 72 università americane hanno chiuso i propri istituti Confucio. A luglio scorso la ministra dell’Istruzione tedesca, Anja Karliczek, ha detto: “Non voglio che il governo cinese influenzi le nostre università e la nostra società. Abbiamo lasciato troppo spazio agli istituti Confucio e fatto troppo poco per costruire competenze indipendenti sulla  Cina in Germania”. In Germania ne sono stati chiusi già 19. “Se davvero queste famiglie vogliono un percorso di studi in cinese perché non lo sostiene il governo italiano”,  dice al Foglio Didi Kirsten Tatlow, ex corrispondente del New York Times da Pechino e ora senior fellow al German Council on Foreign Relations.  “I Confucio non possono essere paragonati al Goethe Institut o al Cervantes spagnolo, perché quelle istituzioni di promozione della lingua sono fuori dai sistemi scolastici stranieri”, dice Tatlow, a Roma per la conferenza Countering China’s influence in Europe and Italy, promossa dalla Fondazione Farefuturo, l’International Republican Institute e il  Comitato Atlantico Italiano. “Se queste classi sono parte della struttura scolastica è perché vogliono essere dentro, hanno un accesso privilegiato all’educazione dei nostri ragazzi e quando vogliono possono chiedere, influenzare, promuovere l’autocensura”, con evidenti conseguenze sulla libertà scolastica e accademica.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.