Thomas Lohnes/Getty Images 

lo spirito dei tempi

Leggere l'Economist per capire l'urgenza di avere Draghi al Quirinale

Claudio Cerasa

Non lasciamo il big government ai professionisti dello statalismo ma mettiamo la spesa pubblica al servizio dello stato imprenditore, scommettendo su un nuovo "whatever it takes" per evitare indugi, corruzione e sprechi insostenibili

Una delle ragioni migliori per giustificare il trasferimento di Mario Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale è quella che si trova questa settimana sulla copertina del settimanale più famoso del mondo: l’Economist. L’Economist dedica il suo servizio principale a un tema che avete trovato spesso declinato sulle pagine del nostro giornale. E quel tema coincide con una rivoluzione economica che la pandemia ha contribuito ad alimentare: l’affermazione del big government, ovverosia la tendenza dello stato a diventare sempre più grande, sempre più robusto e sempre più paffutello.

 

I governi di tutto il mondo, ricorda l’Economist, hanno speso 17 trilioni di dollari per la pandemia, compresi prestiti e garanzie, per un totale combinato del 16 per cento del pil globale. Gli Stati Uniti stanno per investire 1,8 trilioni di dollari per espandere il proprio stato sociale. L’Europa ha stanziato un fondo (Next Generation Eu) pari a 750 miliardi di euro, e circa un terzo di questo stanziamento è destinato all’Italia, che già oggi investe metà della sua ricchezza in spesa pubblica e il cui debito pubblico già quest’anno sfiorerà il 160 per cento del rapporto tra debito e pil. Il Giappone, pur avendo il debito pubblico più alto del mondo, ha approvato proprio ieri un piano di stimoli bestiale, pari a 490 miliardi di dollari, e ci sono buoni segnali per poter dire che il big government è qui ed è destinato a restare a lungo.

   

Si dirà: d’accordo, ma tutto questo che c’entra con il governo Draghi, con il Quirinale e con il futuro del presidente del Consiglio? C’entra per una ragione molto semplice che riguarda una parola tedesca che ci piace molto, Zeitgeist, e che si traduce con un’espressione semplice: lo spirito del tempo. L’Economist sostiene, a ragione, che nella stagione del big government il pensiero economico deve uscire fuori dai tradizionali dogmi, deve imparare a essere flessibile e deve trovare un modo per evitare che la stagione del rimpolpamento dello stato finisca nelle pericolose mani degli statalisti. Il tutto, si capisce, per far sì che la stagione dello stato imprenditore possa essere gestita da qualcuno che abbia il senso del mercato e che abbia al centro della sua agenda non solo la redistribuzione della ricchezza e l’avanzata dello stato nel mercato ma anche la ricerca dell’efficienza e la creazione di ricchezza. In altre parole: stato quando si deve, mercato quando si può.

   

Si dice spesso che la ragione vera per cui Mario Draghi dovrebbe andare al Quirinale (e chissà quando i sostenitori di Draghi a Palazzo Chigi “per più tempo possibile” capiranno che l’alternativa a un Draghi al Quirinale è un Draghi destinato presto a cambiare lavoro: ve lo immaginate Draghi che permette nell’anno elettorale ai partiti di scalfire la sua immagine di decisore?) è legata alla necessità per l’Italia di mettere il paese in una cassaforte per i prossimi sette anni e certamente in questa tesi c’è qualcosa di vero. Ma accanto a questa ragione macroeconomica esiste anche una ragione più culturale che fa di Draghi il perfetto capo dell’Italia e quella ragione è tutta nella capacità del premier di rappresentare un perfetto punto di incontro tra lo stato e il mercato.

 

È stato lui, ai tempi della direzione generale del Tesoro, a smontare e a rimontare alcuni pezzi dello stato, nella stagione delle privatizzazioni, ed è stato lui, ai tempi della pandemia, a introdurre nel lessico economico la distinzione tra debito buono e debito cattivo e a costruire un Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) il cui scopo finale coincide con il tema sollevato dall’Economist: mettere il big government non al servizio della spesa pubblica, ma mettere la spesa pubblica al servizio dello stato imprenditore, facendo tutto ciò che è necessario fare per evitare che lo stato paffutello possa contribuire a rendere lo stato ingessato, corrotto e ingovernabile. È lo Zeitgeist, bellezza.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.