Paul Hermans, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons 

Poltrone girevoli

Il futuro del Colle passa (anche) dalla guerra dei seggi al Senato

Valerio Valentini

Con il Pd che appoggia il ripescaggio di Lotito e Forza Italia che blinda Manca, a Palazzo Madama resta in bilico il posto che Renzi vuole riservare al suo fedelissimo Ernesto Carbone

A smuovere lo stallo, col solito ghigno da guastafeste, c’ha pensato Matteo Renzi. È lui che è arrivato a rivendicare un seggio in più al Senato per il suo fedelissimo, Ernesto Carbone. Che da oltre tre anni sta lì, sulla soglia, ad attendere che il suo destino di quasi senatore si compia, “perché a Palazzo Madama – dice lui – del mio caso ne parlano e ne riparlano, ma poi non decidono”. E invece decidere si deve, insiste il leader di Iv, perché la sfida per il Quirinale passa anche da qui, da un garbuglio di vizi di forma.

 

La faccenda in effetti è di quelle che inducono alla narcolessia: commi, ricorsi, perfino omonimie che generano malintesi. Solo che quando le convulsioni della politica si applicano su questi arabeschi del diritto parlamentare, ne vengono fuori delle battaglie epiche. E infatti Maurizio Gasparri, che di questa storia è malgré soi padrone e vittima, allarga le braccia appena lo si intercetta nei corridoi di Palazzo Madama come fa chi ricerchi un alibi non richiesto: “Io il mio lavoro l’ho fatto, la giunta per le immunità ha emesso il suo responso già tredici mesi fa”. E poi? “E poi che ne so. Io ho sollecitato la presidenza del Senato, che ha sollecitato i capigruppo”. Ma niente. 

 

E in questo niente, c’è un che di paradossale. Perché da oltre un anno la giunta del Senato ha stabilito che, in sostanza, ci sono due membri dell’Aula che dovrebbero lasciare il posto a chi ne è rimasto escluso per irregolarità procedurali. Ma finché l’assemblea non convalida, le sorti dei sommersi e dei salvati restano appese agli accordi più o meno indicibili. Estrema frontiera del consociativismo, che induce Claudio Lotito a sperare e disperare insieme. Perché il patron della Lazio il suo diritto all’elezione se l’è visto riconoscere nel settembre scorso, però gli è stato detto di pazientare: lui nel frattempo, per evitare di concedere pretesti ai suoi avversari, ha pure ceduto le quote dell’altra sua squadra, la Salernitana, varando un trust. “Per cui mo’ se nun me fate entrà, finisco cornuto e mazziato”, si sfoga lui al telefono.


E insieme a lui sbuffa pure Michele Boccardi, già senatore azzurro che s’è visto negare la riconferma per un errore della Corte d’appello di Bari che nel 2018 ha dichiarato eletta al suo posto Anna Carmela Minuto, pure lei forzista ma in odore di eresia. Boccardi fa ricorso, e il riconteggio gli dà ragione. Però nel frattempo parte l’assalto di Renzi al BisConte, Giuseppi sguinzaglia i suoi alla caccia dei responsabili e la Minuto viene tentata dagli emissari del premier periclitante: “Mi hanno detto che se vado con Conte il mio seggio viene blindato”. Matteo Salvini lo viene a sapere. E viene a sapere pure che la Minuto, in Puglia, è fidanzata con Davide Bellomo, consigliere regionale del Carroccio. “Dille che anche noi le garantiamo il seggio”, ordina Salvini al suo colonnello. E così, in questa trattativa da commedia degli equivoci, pure lei viene salvata. 

 

“Perché qui ormai si procede in una logica di nomine a pacchetto”, sbuffa Ernesto Carbone. Che ha pure lui le sue ragioni. Perché Daniele Manca, arrivatogli davanti nel collegio bolognese nel 2018, dovrebbe decadere. Almeno sulla base di una legge del 1957, che impone ai sindaci di dimettersi almeno 180 giorni prima di essere eletti in Parlamento. Il dem Manca, invece, a capo della giunta di Imola c’è rimasto fino a due settimane prima del voto. “Ma quella norma è anacronistica”, si difende lui. “E poi Carbone non ha fatto ricorso”, insiste. “Ma ricorso non serve farlo, e lo ha riconosciuto anche un uomo di legge come Pietro Grasso”, ribatte Carbone. “La verità è che noi del Pd abbiamo un’intesa con quelli di FI”, sibila un senatore dem. “Noi appoggiamo il ripescaggio di Lotito, e loro in cambio blindano il nostro Manca”. Al che si spiega anche l’ansia di Renzi. Che in questo gioco d’incastri rischia ora di restarci doppiamente bruciato. Perché, se le cose vanno così, oltre a non vedere eletto il Carbone che di nome fa Ernesto, suo storico fedelissimo fin dai tempi della Smart a Palazzo Chigi e del “ciaone” referendario, rischierebbe di perdere anche il Carbone che si chiama Vincenzo, perché sarebbe quest’ultimo a dover lasciare il posto a Lotito. Uno gliommero, insomma, su cui proprio ieri sera la giunta per le immunità è tornata a discutere. Il tutto, complicato ancor più da un altro accidente. Perché la morte del senatore Paolo Saviane, leghista di Belluno, dovrebbe produrre l’immediato ripescaggio di un altro salviniano dal listino proporzionale. Ma di leghisti, in quel listino, non ce ne sono più. E dunque si apre il dilemma: assegnare lo scranno a un esponente della coalizione? FdI lo rivendica per sé, ma questo significherebbe falsare gli equilibri tra maggioranza e opposizione. Darlo a FI? Oppure assegnarlo a un leghista, sì, ma andandolo a trovare fuori dalla regione Veneto? Chissà.


“Per quanto mi riguarda, auspico che tutti questi casi si risolvano prima della fine dell’anno”, dice Gasparri. Perché arrivare all’elezione del prossimo presidente della Repubblica con quattro senatori in dubbio, in effetti, non sarebbe il massimo.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.