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I salotti buoni sono l'anima della modernità come deposito della tradizione: basta studiare per capirlo

Giuliano Ferrara

L'insensatezza di accanirsi contro luoghi che, da sempre, hanno nutrito la cultura (positiva e negativa) di cui siamo figli. Un elogio, dedicato a Salvini e Boccia

Me ne sto abbastanza ritirato, dunque non sono sospetto pro domo mea, e poi dopo saprete che razza di dominus e di domina la abitano. Ma è incomprensibile questa detestazione per i salotti che affratella Salvini, vabbè, e tanti astuti uomini pubblici della sinistra italiana (ultimo Boccia). I salotti o salons sono notoriamente, basta informarsi e leggiucchiare, l’anima della modernità come il deposito della tradizione, dipendeva se si tenessero a corte o in città, e hanno nutrito Illuminismo e Assolutismo, splendori e miserie di un’epoca di cui siamo figli, con tutte quelle idee di regalità e poi di libertà eguaglianza e fraternità. Il principe Vjazemskij diceva dell’humour “qui court la rue” che era più nei salotti che non nei libri, perché “la nostra arguzia è molto più vocale che grafica”.

 

A Parigi, in un appartamento al Carrousel, ho calcato un parquet che un mio amico sosteneva risuonasse dei passi di Voltaire, un salonnièr come pochi. L’Enciclopedia di D’Alembert e di Diderot è figlia dei salotti. Ma si faceva cultura, si danzava, si leggeva in pubblico, si faceva teatro, si intrigava e si disponeva anche nei salotti cortigiani, dove si dipanavano i princìpi di una lotta politica anche violenta, e si tramavano  grandi fatti e misfatti che hanno fatto questo tempo, forgiandone le idee aristocratiche e le cose rivoluzionarie, le parole e la letteratura, le costituzioni, i criteri di vita come il coraggio, l’onore, la disponibilità, l’esclusività, e ovviamente l’amore e il sesso prima della chimica. I salotti hanno tutelato e poi liberato la schiavitù, hanno unificato Europa e America rivoluzionaria, hanno secolarizzato il mondo dopo secoli di fervore religioso, si sono sempre riempiti di cardinali, gesuiti, artisti, uomini di notevole ingegno, libertini di gusto e gente comune di passaggio, mercanti, economisti, tipi bizzarri, e donne, sopra tutto donne, non solo quelle geniali e superletterate, anche quelle che hanno fatto l’Italia con le loro arti più o meno magiche (è in uscita un libro di Benedetta Craveri, regina della materia libertina e della ritrattistica di conversazione, sulla salonnière che ha incantato Napoleone III, facendoci il bel favore del paese unico e del mercato unico, oops).

   

Senza i salotti non esisterebbero Parigi, Londra, Berlino, Madrid, Barcellona, Milano, Roma, Monaco, San Pietroburgo, Mosca, Napoli e altri capolavori di urbanità che hanno i loro mercati, le loro periferie, i loro musei, le biblioteche, le strade e le prospettive, ma hanno avuto sopra tutto nel cuore originario la pulsante attività di salotti fatali di cui quel che sappiamo e non sappiamo, quel che leggiamo, quel che facciamo è il prodotto di derivazione, e che prodotto. Da oltre tre decenni con mia moglie vivo, siamo come due studenti invecchiati, pardon, io invecchiato lei no, in una casa arredata (si fa per dire) in modo tale che in salotto o in soggiorno, ovunque tu sieda, non ti è possibile conversare con alcuno; non si sa perché, è una fatale disattenzione e una specie di blanda malattia, ma non siamo mai riusciti a combinare le cose altrimenti, si parla solo a tavola, per il resto si guarda un muro. I miei avevano un salotto normale, i suoi pure, noi no. Roba da psicoanalisi avanzata, non so se freudiana o archetipica. Capite dunque perché questo elogio del salotto, al quale aggiungo che piazza del Popolo è un salotto, il salottiero periferico Calenda vi presenta l’atto finale della sua candidatura a sindaco di Roma il primo ottobre, e io che seguo la linea perinde ac cadaver ci sarò.

  
Da Rosati, naturalmente, per ricordare tra l’altro la mia età non più militante e il salotto dei poeti dove Cardarelli si accomodava anche nel mese di agosto (“Distesa estate, stagione dei densi climi, dei grandi mattini, dell’albe senza rumore”) vestito di un cappotto con il collo di pelliccia. Benvenuti anche a Boccia e Gualtieri, se decidessero di venire con un colpo di scena a sensazione.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.