Evoluzione di un mediatore

Che cosa ha di democristiano Di Maio, secondo Pomicino 

Paolo Cirino Pomicino

I paragoni impropri tra le personalità politiche della Prima Repubblica e quelle odierne spingono a scambiare la duttilità del ministro degli Esteri per marchio di fabbrica Dc. L'ex capo politico dei 5 stelle ha commesso troppi errori d'inesperienza. Eppure c'è ancora speranza

La drammatica inconsistenza trentennale dell’intero sistema politico italiano, con partiti privi di ogni cultura di riferimento e largamente personalizzati, spinge spesso i commentatori a fare paragoni con i partiti della cosiddetta Prima Repubblica. Il confronto in genere viene fatto con la Dc che governò per 40 anni perché per 40 anni vinse le elezioni. Nella sua ultima elezione, quella del 1992, la Dc raggiunse la punta più bassa della sua storia raccogliendo il 29,7 per cento dei voti che pure erano quasi il doppio del Pci. Nella Seconda Repubblica solo una volta Berlusconi si avvicinò a questa soglia e in due elezioni europee Renzi e Salvini la superarono salvo poi crollare subito dopo. Ecco il perché la Dc è ancora oggi un termine di paragone e in particolare per i Cinque stelle, vista l’assenza di ogni traccia di cultura politica nel partito di Grillo e nei suoi parlamentari reclutati, come si suol dire, con la pesca a strascico.

 

In questo sforzo per trovare una fiammella politica capace di contagiare anche i molti sprovveduti da tempo si tenta di capire Luigi Di Maio che animale politico sia e se per caso non sia una sorta di reincarnazione di un democristiano doroteo. Beppe Grillo naturalmente è imparagonabile ai partiti della Prima Repubblica che con tutti i loro difetti erano partiti seri con una solida cultura di riferimento e con una preparazione politica di tutto rispetto. Tornando a Luigi Di Maio, che per un lungo periodo è stato il cosiddetto capo politico del Movimento, certamente si è differenziato da tutti gli altri grillini che avevano il dono della parola. Sin dall’inizio infatti era l’unico che non urlava contrariamente anche a Grillo che con i suoi vaffa urlava a squarciagola inanellando sciocchezze una dopo l’altra. Una differenza che colpì subito quasi tutti i commentatori che immediatamente lo accostarono a un tardo democristiano.

 

In realtà nei primi due anni dell’attuale legislatura Di Maio è incorso in errori drammatici da giovane goliarda che parlava di cose più grandi di lui. Ricordiamo l’incitamento pubblico di minacciare il presidente della Repubblica con l’impeachment urlato ai suoi militanti nella pubblica piazza perché tardava a dare l’incarico di formare il governo o il suo infantile annuncio dal balcone di Palazzo Chigi di avere abolito la povertà. Al di là dei congiuntivi ignorati e delle scarse cognizioni geopolitiche (o forse addirittura geografiche) collocando Pinochet in Venezuela invece che in Cile, il primo Di Maio spesso parlava a vanvera come quando era convinto che ogni uomo è formato per il 90 per cento di acqua. Insomma in quella prima stagione l’ignoranza della politica e spesso anche dell’italiano impediva qualunque confronto tra Di Maio e qualunque altro politico della Prima Repubblica. Lo stesso Di Maio a nostro giudizio si convinse di questa sua inadeguatezza e cogliendo l’occasione della sconfitta alle penultime regionali si dimise dalla carica di capo politico annegando in un silenzio che, questo sì, somigliava al metodo democristiano secondo il quale un leader dopo una difficile esperienza andata male si inabissava per sottrarsi alle luci della ribalta e farsi un po’ dimenticare. Di Maio aveva un motivo in più ed era quello di sottrarsi alle ripetute gaffe che facevano sorridere e, si sa, niente è più mortale del farsi ridere dietro. 


Abbandonata la carica di capo politico e mantenuta la carica di ministro degli Esteri, Di Maio capì che in quel modo si poteva sottrarre alle questioni nazionali e dedicarsi a quella politica estera totalmente sconosciuta a lui e ai più affidandosi anima e corpo alla grande diplomazia italiana che era in condizione di accompagnarlo lungo strade ignote e sentieri scoscesi tenendolo per mano. Questa opportunità fu colta da Di Maio per mettersi a studiare l’inglese a spron battuto in maniera tale che nei consessi internazionali potesse colloquiare con gli altri ministri degli Esteri e non apparire una sorta di intruso. Non sappiamo cosa dica in quei pochi minuti e, lo confessiamo, siamo anche terrorizzati di saperlo, vista la leggerezza politica spesso mostrata, negli anni, dal capo della Farnesina. Tutto quanto è capitato nella vicina Libia, infatti, dice più di ogni altra cosa la debolezza del nostro ministro degli Esteri, rimasto immobile durante il governo Conte salvo parlare più volte con il premier libico Al Serraj, riconosciuto da tutta la comunità internazionale. Pur avendo un contingente di 800 uomini tra militari e carabinieri in quel paese e pur avendo un riferimento antico nei riguardi della Libia riconosciuto quasi da tutti a eccezione della Francia per interessi petroliferi, l’Italia di Conte e di Di Maio è rimasta inerte dinanzi alle scorribande dei mercenari di Haftar, coperto dai russi e dai turchi. Con l’arrivo di Draghi e con il nuovo presidente americano Joe Biden la Libia, così come l’intero Mediterraneo, ritorna al centro dell’attenzione atlantica e Di Maio ne prende atto. In tre soli anni Luigi Di Maio è passato dunque dal tentativo di agganciare i gilet gialli contro Macron pur essendo un ministro della Repubblica italiana in carica a un più concreto interesse con i cinesi firmando un accordo per la cosiddetta Via della Seta per finire, da qualche mese a questa parte, a rimettersi sotto l’ombrello americano senza neanche avere quei margini di manovra nei riguardi del mondo arabo che fu tipica della politica estera democristiana e socialista. 


Si può dire che questa flessibilità di Di Maio ricorda la duttilità democristiana? Beh ognuno può vedere lucciole per lanterne, se questo soddisfa la propria nostalgia di quando la politica era con la P maiuscola, ma la flessibilità di Di Maio è figlia della sua totale inadeguatezza in un ruolo, quello di ministro degli Esteri, nel quale è richiesta una “gravitas”, cioè un peso e una esperienza personali. E per Di Maio non c’è alcuna gravitas. C’è però qualcosa di cui va preso atto. Luigi Di Maio sta tentando di imparare non solo la funzione di ministro degli Esteri ma anche la politica. Si è tirato fuori dallo scontro Conte-Grillo apparendo il mediatore e l’uomo che per entrambi può riorganizzare il Movimento, e questo ha alla lontana un profumo di democristianeria. Vedremo nei prossimi tempi se smetterà di fare errori marchiani come quello dalla riduzione dei parlamentari o quello della legge sul traffico d’influenze o sulla prescrizione e se crescerà il suo buon senso di cui tutti sentiamo la mancanza. Vedremo e capiremo. 

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