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Roma, città commissariata

Andrea Venanzoni

La Capitale non vorrebbe amministrarla nessuno. Il tempo sospeso del centrodestra e del centrosinistra alla ricerca del candidato giusto. 

Il deserto cresce, guai a chi in sé alberga deserti, scrisse Friedrich W. Nietzsche, certamente riferendosi alla fisionomia secchiccia di Tiberis, la spiaggia non-spiaggia a ridosso del Tevere dove trascorrere emozionanti pomeriggi nell’assolata afa, senza poter fare nulla che non sia la contemplazione delle acque limacciose del fiume.

 

Inno assoluto al nichilismo gestionale di una città-organismo, ricombinante e compatta come una matassa di rifiuti lasciati a prendere caldo in una discarica, e specchio perfetto, al tempo stesso, di una città immobile, in apnea politica ed amministrativa, disastrata nei suoi conti e nella sua gestione e capace di impaurire, fino alla paralisi, i blocchi politici che dovrebbero impegnarsi nella campagna elettorale per il rinnovo della consiliatura.

 

Roma, è chiaro, non vorrebbe amministrarla nessuno. Prima forse rappresentava una semplice patata bollente, capace di appannare un curriculum politico o amministrativo di prestigio, adesso invece è il masso finale di una slavina che viene da lontano e che, passo dopo passo, silenzio dopo silenzio, inerzia dopo inerzia, ha prodotto un labirinto caotico oggettivamente ingovernabile che potrebbe annientare del tutto, e senza speranza di seconda chance, una figura politica di prestigio.

 

Ed immolarsi su questo altare di società partecipate allo sbando, nell’afrore dei rifiuti marciti, tra gabbiani e cinghiali che arriveranno presto a chiedere i documenti all’anagrafe, trasporti pubblici al cui confronto i tuk tuk cambogiani rappresentano summa dell’efficienza, una disurbanizzazione feroce che irradia metastasi in ogni quadrante e in ogni quartiere, sarebbe un atto di straordinario masochismo.

 

‘Il candidato lo scegliamo in mezz’ora’, dicono dalle parti del centrodestra, e lo ripetono da mesi. Una mezz’ora ininterrotta, che tradisce la reale consapevolezza di voler sfuggire all’abbraccio letale di una amministrazione e di una realtà sociale, finanziaria, gestionale che trascinerebbero tra loro cospiranti davvero molto in basso lo sventurato desideroso di cimentarsi nell’impresa.

 

Con il bonus speciale di una serie di articolate faide e antipatie personali che tracimano dal ristretto perimetro della ‘destra sociale’ capitolina, in cui affonda le radici Fratelli d’Italia e da cui per partenogenesi origina la Lega romana, e che ad oggi, come sempre, impedisce di rinvenire un candidato davvero unitario. E potete esser certi che anche quando, con estremo ritardo, lo troveranno, ci sarà una ampia fetta di coalizione che gli remerà contro, come da tradizione.

 

Dalle parti del centrosinistra propongono le primarie, ma questa volta come metodo di fuga dalla responsabilità e con un vincitore che si ritroverà il cerino in mano, a bere dalll’amaro calice del doversi sobbarcare sulle spalle, novello Atlante, il peso insostenibile di mandare avanti una macchina elefantiaca e inceppata.

 

E se poi sarà Zingaretti, su cui come sembra si stanno abbattendo pressioni sempre più incalzanti, anche nel nome del consolidamento dell’alleanza surreale con i cinquestelle, se sarà Zingaretti dicevamo il nome per farsi carico della fatica erculea, la cosa dovrà suonare più come una rivalsa dell’attuale Presidente della Regione Lazio, (auto)scalzato dalla guida del PD, che non come una scelta davvero consapevole di voler divenire Sindaco di una città accartocciata come un foglio di giornale.

 

Ci sarebbe, va detto, l’eccezione che conferma la regola e che risponde al nome di Carlo Calenda, il quale, attraversando il deserto capitolino del reale popoloso solo di nutrie e di fantasmi, si avventura nel ventre cavo della città, registrando video, elaborando progetti, snocciolando proposte, mettendo su una task-force di pronto intervento, ma ad oggi Calenda appare come un nobile e generoso outsider le cui concrete possibilità di diventare sindaco, in assenza di un sostegno di coalizione, appaiono tanto realistiche quanto lo sarebbe arrivare puntuali ad un appuntamento percorrendo la Tiburtina.

 

Vero è che la politica che a parole vorrebbe prendere atto, in felice sintesi, della assoluta peculiarità della Capitale, dopo la farraginosa e largamente irrisolta questione del riconoscimento espresso in Costituzione del ruolo capitale della città, si è arenata sulle secche della paura di doversi assumere reali responsabilità di governo.

 

La tragica, incapacitante condanna del decidere.

 

Ed ecco così che l’unico linguaggio parlato dalla politica è stato quello del sussidiare la città, senza pensare di mettere mano davvero alla sua architettura complessiva. Fondi, magie contabili, gestione commissariale del debito, tutto qui.

 

La lunghissima sequenza di leggi-provvedimento che si sono susseguite tra gli anni cinquanta e l’avvenuta riforma del Titolo V della Costituzione non è una casualità; si tratta di un dato inevitabile, con radici antiche ben salde ed effetti visibili nella quotidianità che viviamo.

 

Molte erano leggi di trasferimento di fondi, e seguendole a ritroso come fossero punti tratteggiati di un invisibile camminamento si può anche tornare al punto esatto in cui il disastroso bilancio capitolino, ormai oggettivamente fuori controllo, iniziò a slabbrarsi e a prendere la fisionomia abissale di una voragine, in corrispondenza delle Olimpiadi degli anni sessanta.

 

Poco importano e contano quindi l’Osservatorio parlamentare per Roma, divenuto una presenza evanescente e fantasmatica, o le proposte di legge per la attuazione del nuovo articolo 114 della Costituzione, con una politica che si è divisa tra chi vorrebbe andare avanti per legge ordinaria e chi reclama invece una nuova riforma costituzionale, immaginando quanto spirito costituente possa rinvenersi in una legislatura che vede i partiti dividersi su qualunque cosa e tendersi reciproche imboscate pur se tutti coinvolti nel minestrone della ‘unità nazionale’.

 

Roma come Parigi. Roma come Washington. Roma come Londra. Roma coincidente con la città metropolitana. Roma-regione. Roma co-gestita con lo Stato.

 

Le proposte dei giuristi e degli esperti fanno di solito i conti senza il vero convitato di pietra, la politica.

 

Perchè in realtà Roma rimane un oggetto misterioso più simile, per mentalità gestionale, a un Comune di ventimila abitanti piuttosto che a una moderna Capitale mondiale.

 

Roma è la Salerno-Reggio Calabria del design istituzionale.

 

E alla politica, sarà forse demagogico dirlo, ha sempre fatto comodo questa dimensione incompleta e incompiuta, latamente norcina, dispersa in frammenti tribali di strette di mano e di decisioni spicciole in cui l’asfaltare una singola strada viene rivenduto nemmeno fosse il ponte sullo Stretto di Messina.

 

Una coltre di nebbia si è abbattuta poi sul ricordo dei centocinquanta anni della Capitale, non le chiamerò celebrazioni perché in effetti c’è assai poco da festeggiare o celebrare, e non si dica però che è colpa solo della pandemia. Semplicemente non interessava nessuno. Nemmeno ai romani, a dire il vero, che la mattina hanno assai poco da rimembrare mentre si sfidano al coltello per salire su un bus sferragliante.

 

E a ben vedere tra le pagine del Pnrr, Roma ne esce con scarsa considerazione, e anche in questo caso non per riforme o opere di ingegneria istituzionale, ma solo con qualche ulteriore cordellino della borsa aperto per elargire fondi. Scarsi, nel caso di specie, e destinati ad opere come la funivia Casalotti-Boccea, nel caso vi venisse voglia di andare a farvi la settimana bianca a Roma Nord-Ovest.

 

E la centralità evocata da Stefano Cingolani, proprio sulle pagine de Il Foglio, a ben vedere, involge solo l’aspetto di una Roma come spazio istituzionale per la gestione centrale dei progetti di sviluppo del Pnrr stesso, non certo la caotica, magmatica città che al contrario se ne rimarrà adagiata, sonnacchiosa e bizantina come una Biancaneve poco bianca visto lo smog.

 

Roma, questa Roma, non può essere un attrattore, né un hub, perché non ha una sua razionalità, non ha visione, e peggio ancora non ha una sua vera classe dirigente politica; e di certo una razionalità non la si può imporre in maniera estemporanea, per via di fatto, senza una preventiva operazione organica e a modo suo brutale di ristrutturazione pesante della mentalità, della cultura, del senso istituzionale, della selezione e della formazione del personale, senza un campionamento delle funzioni esercitate.

 

Eppure siamo andati vicini a ciò che si sarebbe dovuto davvero fare per non dico rivitalizzare la città ma almeno per arrestarne il declino: commissariare la città, farla gestire da tecnici del tutto slegati dalla dimensione del consenso politico che granello dopo granello ha ingenerato un deserto di logiche distorsive.

 

Si dirà, sarebbe la morte della democrazia. Ma la democrazia, andando avanti di questo passo, muore giorno dopo giorno, sfiancata dalla consistenza lillipuziana della concezione che la politica ha della città, dalla mancanza di visione complessiva, dalla assenza radicale di una classe dirigente che sappia coniugare conoscenza della complessità amministrativa e del territorio con expertise tecnica, da una ingordigia bulimica di nomine assai spesso di dubbia matrice.

 

Il commissariamento lo proposero i Prefetti, nelle pagine del monumentale rapporto della commissione di accesso, sull’onda montante di ‘mafia capitale’ che poi come hanno accertato i giudici non era mafia nemmeno per sogno: era ‘solo’ una montagna di opacità, storture amministrative, kafkiani contorsioni burocratiche e malapolitica nel cui gorgo nero si erano annidati perniciosi fenomeni di corruttela.

 

All’epoca si fece una scelta diversa, e si preferì commissariare un solo Municipio, il X, Ostia, divenuto poi epitome mediatica della Suburra. La scelta del governo, diametralmente opposta rispetto alle richieste e alle conclusioni contenute tra le pagine del rapporto finale della commissione presieduta da Marilisa Magno, appare come il più clamoroso fallimento della politica nel considerare le conseguenze di quel che sarebbe potuto essere e che invece venne impedito.

 

Eppure l’unico vero cambio di passo in una città in cui virtualmente tutto, dalle società partecipate alla riparazione delle voragini su strada, sembra rispondere al canto sinuoso di logiche clientelari incistatesi nel profondo del tessuto culturale e politico capitolino sarebbe disarticolare proprio la connessione tra un certo modo di intendere l’ amministrazione e una politica davvero piccina, fino alla avvenuta bonifica, almeno parziale.

 

E da portarsi avanti, ce lo ricorda ancora di recente Sabino Cassese, in combinato con un radicale riammodernamento della macchina amministrativa, la quale allo stato attuale appare assai lontana dal poter assumere funzioni ulteriori rispetto a quelle, meramente ordinarie, che già oggi fa fatica a gestire.

 

Si pensi alla lunga sequenza di appalti pubblici letteralmente fatti a pezzi dalla giustizia amministrativa, dal verde verticale a quello, enorme per valore economico, sui servizi scolastici, per un totale di oltre 470 milioni di euro sbrindellati in quattro distinte sentenze del 2018, oppure ancora quello sui servizi di rimozione delle autovetture, con sette gare fallite nell’arco temporale di quattro anni.

 

Per non parlare poi della manutenzione stradale, autentica croce degli automobilisti ormai mesmerizzati da rattoppi di asfalto a freddo destinati ad essere frantumati dalla prima pioggerella.

 

Figurarsi assegnare alla Roma attuale funzioni legislative o da città-Regione come pure alcuni vanno proponendo.

 

Vengono i brividi solo ad immaginarlo.

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