Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Luigi Di Maio e i parlamentari M5s al Circo Massimo nel 2018 (LaPresse)

La controversia grillina

Scappati con la cassa

Francesco Cundari

Tra Davide Casaleggio e Beppe Grillo, gli avvocati e l'avvocato (del popolo). E una lezione che arriva da Togliatti

Il problema della cassa, di quel che contiene e di quel che potrebbe contenere, inteso come denaro, ma anche come documenti riservati, è sempre stato centrale, specialmente nei partiti rivoluzionari e anti-sistema. Il caso Casaleggio, inteso come Davide, figlio del fondatore Gianroberto, al centro di una complicatissima e furibonda contesa legale con i vertici del Movimento 5 stelle e con Giuseppe Conte, presenta tuttavia una variante assai singolare rispetto allo schema classico. In genere, infatti, anche se per varie ragioni magari non lo possono dire, i partiti di un tempo quanto c’era in cassa e cosa c’era scritto nei documenti lo sapevano benissimo, quando qualcuno decideva di portarseli via, tradendo la loro fiducia e lasciandoli nell’impossibilità di denunciare pubblicamente l’accaduto (per le varie ragioni di cui sopra).

 

Qui invece accade il contrario. Perché qui è il tecnico, depositario dei documenti e della cassa, in quanto capo dell’associazione Rousseau e tenutario dell’omonima piattaforma, che chiede indietro (altri) soldi ai vertici del partito, e il partito che non riesce a ottenere da lui nemmeno l’elenco dei propri iscritti. Caso più unico che raro nel panorama della politica mondiale, come ha giustamente notato su Repubblica Annalisa Cuzzocrea, di organizzazione che non sappia nemmeno chi siano i propri iscritti. Celiando un po’, si potrebbe dire che Davide Casaleggio stia cercando di realizzare in un certo senso, con Alessandro Di Battista e gli altri esponenti dell’area irriducibile, il sogno di Giulio Seniga. Lo strettissimo collaboratore che il 25 luglio 1954 tradì la fiducia di Pietro Secchia, potente capo dell’organizzazione del Pci, da alcuni considerato più importante dello stesso segretario Palmiro Togliatti, scappando con un mucchio di soldi e qualche documento segreto. Con la dichiarata intenzione di spingere Secchia – “L’uomo che sognava la lotta armata”, secondo il titolo della biografia che gli dedicò Miriam Mafai – a rompere con i vertici del partito, giudicandoli ormai persi alla causa rivoluzionaria, nella loro irrecuperabile deriva opportunista (quanto la motivazione da lui fornita fosse sincera, e quanto fosse semplicemente l’alibi dietro cui si nascondeva il più banale movente economico, è perlomeno dubbio, ma questo non vale solo per Seniga, non vi pare?).

 

Mi rendo conto che il parallelo può suscitare qualche legittima perplessità, tanto pensando alla particolarissima figura di Casaleggio quanto, e forse ancor più, per quel che riguarda Di Battista. L’uno, più che un rivoluzionario irriducibile come Secchia, appare infatti come una sorta di capo delle Charlie’s Angels, ricco organizzatore che tira i fili dietro le quinte, sebbene evidentemente sempre più tentato di scendere personalmente in campo: una sorta di Bruce Wayne del Movimento 5 stelle, ansioso d’indossare i panni di Batman. Mentre l’altro, Dibba, scapestrato giramondo sempre sul punto di fare il suo grande ritorno, senza però concretizzarlo mai, ne è piuttosto il Posaman. Non meno arduo, e anche poco incoraggiante, sarebbe poi il parallelo con Seniga, il braccio destro di Secchia, il cui tentativo di promuovere un movimento capace di suscitare un’opposizione alla linea togliattiana nel Pci, in nome degli ideali rivoluzionari delle origini, sarebbe durato poco più di Papa Luciani. Già nel 1958 Seniga sarà infatti espulso pure da Azione comunista, il gruppo di estrema sinistra che in teoria avrebbe dovuto essere il centro delle sue operazioni, nonché destinatario dei cospicui fondi sottratti al partito (che suona un po’ come se Casaleggio domani venisse espulso dall’Associazione Rousseau, o licenziato dalla Casaleggio Associati).

 

Superfluo aggiungere che si trattava di soldi provenienti dall’Unione sovietica per canali, diciamo così, informali: fonte di finanziamento non solo illegale, ma semplicemente indicibile per un partito che nel pieno della guerra fredda rivendicava fieramente il suo carattere nazionale e patriottico. Stiamo parlando peraltro di una somma non piccola, messa da parte “per fare la tipografia dell’Unità”, secondo un appunto di Togliatti, in cifre attuali quantificabile – a quanto scrive Marco Albeltaro in un’altra biografia di Pietro Secchia: “Le rivoluzioni non cadono dal cielo” (Laterza) – nella bellezza di 9 milioni di euro. Con tutte le distinzioni del caso, anche dinanzi alla strana vertenza grillina, tra tante dichiarazioni più o meno in codice, interviste minatorie e allusioni scorsoie che caratterizzano le comunicazioni pubbliche tra le due parti (e figuriamoci quelle private), è però difficile resistere alla tentazione di leggervi in filigrana qualcosa di politicamente e psicologicamente meno banale di quel che potrebbe sembrare a prima vista. E anche di più antico. Si sa che tutte le separazioni sono dolorose, specialmente quando di mezzo ci sono i soldi e i bambini, e in questo caso non mancano né gli uni né gli altri. O forse per i divorzi vale l’opposto della famosa citazione di Tolstoj: tutti i divorzi felici si assomigliano, ma ogni divorzio infelice è infelice a modo suo.

 

Specialmente, non me ne voglia la categoria, quando ci sono di mezzo gli avvocati. E in questa storia gli avvocati stanno praticamente dappertutto. C’è anzitutto il celebre Avvocato del Popolo, che forse sperava di risolvere la questione a modo suo, con un qualche cavillo che però, a oggi, sembra non avere ancora trovato (altra ragionevole ipotesi è che Beppe Grillo, da buon genovese, non me ne vogliano i genovesi, gli abbia ventilato l’ipotesi di fare il leader al solo scopo di spillargli una consulenza legale gratuita su come liberarsi di Casaleggio). Ci sono poi avvocati e notai impelagati nella vicenda della separazione del movimento dall’associazione, e dall’omonima piattaforma, con tutti i problemi connessi di titolarità del marchio, gerarchia interna, meccanismi decisionali (motivo per cui, spiegano gli articoli sull’argomento, per elaborare regole e statuti del nuovo movimento Conte sarebbe ricorso, a sua volta, ad altri avvocati). E ci sono infine gli avvocati da pagare per le cause di diffamazione, comprese quelle a carico di Grillo, che evidentemente non sono poche. E anche questo non è poi così strano, in un movimento nato con il dichiarato e non economico proposito di mandare a quel paese il prossimo. A causa dei debiti non saldati, infatti, sembra di capire che Rousseau potrebbe non garantire più la tutela legale nelle cause in corso. “Tra i fornitori che sono in attesa da tempo ci sono anche gli avvocati”, ha confermato Casaleggio al Corriere della sera qualche giorno fa, con il consueto fare sibillino. E subito ha aggiunto: “In realtà sono certo che il Movimento 5 Stelle onorerà i suoi debiti. La domanda che mi pongo è se si vorrà continuare a mantenere la piramide rovesciata, mettendo le decisioni dei cittadini al centro, nelle scelte future o si preferirà una struttura partitica verticistica dove decisioni come la composizione delle liste o le alleanze locali continueranno ad essere prese dagli iscritti a livello locale o invece come tradizione dei partiti in qualche sala romana. In questo secondo caso ovviamente Rousseau non sarebbe più necessario”.

 

 

Al di là della forma un po’ involuta, il rischio di costruire una “struttura verticistica” denunciato da Casaleggio suona un po’ come una campagna per la trasparenza firmata dalla Spectre, e davvero non vale la pena di soffermarcisi. Più interessante è la dinamica politica e umana che intreccia, come sempre accade in questi casi, accuse di tradimento e rinnovate prove di fedeltà alle proprie promesse originarie, vile moneta e ambiziosi progetti di riscatto, rinascita, rigenerazione di un’esperienza che tuttavia, a giudicare dal tono di quegli stessi discorsi, e dal merito delle controversie che sottendono, appare inevitabilmente corrotta e consumata dal tempo, non meno che dal denaro. Un discorso ambiguo e al tempo stesso minaccioso, in parte cifrato e in parte fin troppo comprensibile. Minacciosissima, e dagli effetti micidiali, era del resto anche la lettera che Secchia ricevette da Seniga poco dopo il fattaccio. Non certo una lettera di scuse, bensì un esplicito, e assai compromettente, atto d’accusa, che basterà a stroncare per sempre la sua carriera. “La mia lunga e vigile osservazione, corroborata ed aiutata da certe tue acute considerazioni e affermazioni sulla politica del Partito e sul malcostume, fatto di opportunismo paura e conformismo, che vige nei massimi organi direzionali (...) hanno radicato in me la convinzione che il movimento proletario italiano è stato un’altra volta imbarcato su una strada, in fondo alla quale non ci sarà che il fallimento completo”, scrive Seniga subito dopo la fuga. Seguono pesanti allusioni alle scelte personali di Secchia (“Interiormente, anche se non sempre ti poteva apparire, non ho mai approvato il tuo operato personale e politico… Non ho mai avuto dubbi sul tuo passato, fino a quando tu non mi hai dato modo di riflettere ed anche di dubitare… Comunque se hai dei torti o delle colpe, ritirati e dedicati sul serio alla casa e alla tua prospettiva familiare, i mezzi non ti mancano…”) e ancora più precise allusioni, sebbene in cifra, al maltolto, ai nomi in codice dei covi in cui erano custoditi i fondi clandestini del partito e dei compagni incaricati di sorvegliarli. Concludendo che sarebbe tornato “con armi e bagagli” solo se avesse visto che “la lezione vi è servita”.

 

Ovviamente non tornerà mai, e tanto meno torneranno armi e bagagli. In verità, la lezione servirà soprattutto a Togliatti, ma per liberarsi di Secchia, vale a dire di un rivale assai scomodo (operazione peraltro già in corso dopo la morte di Stalin, nel 1953) e smantellare definitivamente ogni velleità di costruire nel partito una sorta di struttura parallela, composta di rivoluzionari professionali pronti a prendere le armi in caso di necessità. E anche sulla determinazione del caso di necessità – difendersi da un colpo di stato di destra, da un tentativo di mettere fuori legge il partito, o anche da “provocazioni” di minore gravità? – le opinioni divergevano da tempo. Almeno sin da quando, nel 1947, Secchia aveva sottoposto le sue perplessità sulla linea troppo accomodante di Togliatti in colloqui diretti con lo stesso Stalin, a Mosca, non ricevendone però l’approvazione che si attendeva. L’aspetto curioso della controversia grillina è che in questo caso a risolverla potrebbero essere proprio quei tribunali a cui i vertici del Pci, per le ragioni summenzionate, non potevano rivolgersi. In particolare, grazie al ricorso di un’espulsa di Cagliari, dinanzi al quale i giudici avrebbero stabilito non essere valida l’autorità di Vito Crimi, decaduto nel momento in cui l’assemblea degli iscritti ha votato il nuovo direttivo a cinque. Che però non si è mai costituito. Ragion per cui ora dal tribunale potrebbe venire l’ingiunzione a provvedere, che a sua volta il movimento vorrebbe usare per costringere Casaleggio a consentire la votazione su Rousseau, dove Conte si presenterebbe insieme ad altri quattro signori (così da arrivare a cinque) di cui però sarebbe implicitamente il leader. Et voilà, ecco eletto il nuovo capo. E senza pagare l’obolo a Casaleggio.

 

Se poi quest’ultimo facesse resistenza, scrive Repubblica, citando persone al lavoro sulla questione (altri avvocati, presumibilmente), vorrà dire che Grillo si appellerà al giudice sostenendo che “un ente privato non può frapporsi come ostacolo alla vita associativa di un partito”. Che suona un po’ come se Togliatti avesse portato Secchia in tribunale con l’accusa di prendere ordini dall’Unione sovietica, ma tant’è. Chissà, forse è il destino di tutti i grandi leader rivoluzionari, o almeno di quelli che non siano riusciti a fare la rivoluzione, senza cadere in un fulgor di gloria nel corso della lotta, ma trovando piuttosto un proprio modus vivendi nel nuovo regime. Adattando cioè il proprio partito – e le proprie parole d’ordine – alla mutata situazione. Forse è una nemesi iscritta da sempre nel loro destino, o semplicemente una variante del celebre detto di Pietro Nenni: “A fare il puro alla fine si trova sempre uno più puro che ti epura”. Specialmente se il puro ha le chiavi della cassa, e sei stato proprio tu a dargliele.