Perché per i partiti più delle alleanze vale la competizione

Claudio Cerasa

Proporzionale vs maggioritario: le ragioni di Bettini e l’errore di Letta. Nell’èra Draghi e delle larghe intese tutte le formazioni politiche avrebbero qualcosa da guadagnare nel ritrovare la propria autonomia  
 

Competition is competition. Goffredo Bettini ha detto una sciocchezza colossale quando ha sostenuto che il governo Conte sia caduto non per i suoi errori o per i suoi ritardi ma “per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli” (d’altronde, anche il Popolo della libertà accusò Giorgio Napolitano di aver ordito un complotto contro Berlusconi nel 2011, dimenticandosi anche loro, come il Pd oggi, di aver votato la fiducia per più di un anno al governo Monti, che sarebbe stato artefice di quel complotto). Ma nel corso della presentazione della sua corrente (Agorà) l’ex inventore del modello Roma (la cui corrente è stata salutata con affetto da Enrico Letta, giusto pochi giorni dopo aver detto peste e corna della proliferazione delle correnti) ha detto anche un’altra cosa decisamente più interessante rispetto al tema del complotto che ha a che fare con una questione solo apparentemente lontana dalla fase storica che stiamo vivendo oggi.

 

Per i partiti italiani, l’arrivo di Mario Draghi ha avuto un impatto non troppo diverso rispetto a quello prodotto negli organismi dai vaccini anti Covid che utilizzano la tecnologia mRna: così come  le molecole di acido ribonucleico messaggero contengono istruzioni affinché le cellule delle persone vaccinate inducano una risposta tale da impedire l’infezione, allo stesso modo Draghi ha consegnato ai partiti le istruzioni giuste per dotarsi di leadership all’altezza delle sfide di questi tempi. C’è chi ha colto le istruzioni offerte da Draghi in modo serio e chi le ha accolte invece in modo meno serio ma il punto politico di fondo non cambia: i partiti che possono avere un futuro, nell’èra Draghi, nell’èra cioè delle larghe intese, a cavallo tra la fine della pandemia e l’inizio di una nuova normalità, sono quei partiti in grado di rivedere qualcosa rispetto alla propria identità. E per trovare una nuova identità, per puntellarla, per definirla, per descriverla e per formarla non è sufficiente occuparsi dei contenuti ma è necessario più che mai occuparsi del contenitore e sfruttare quest’occasione per provare a mettere in moto un grande processo caratterizzato da un principio su tutti: la scrematura delle minchiate politiche.

 

Dice Goffredo Bettini, parlando del futuro del Pd, che per il centrosinistra non esiste alcuna possibilità di costruire una nuova identità senza sposare una legge elettorale come il proporzionale, che permetta cioè a un partito come il Pd di ritrovare una sua autonomia e di competere anche con i suoi possibili alleati. Su questo punto, Bettini ha ragione da vendere e il paradosso per il Pd di Enrico Letta, che invece sembra essere intenzionato a scommettere su un sistema maggioritario, è che proprio nella stagione in cui il Pd potrebbe avere le carte in regola per emanciparsi dall’abbraccio del grillismo si sceglie di scommettere su un sistema tale da rendere impossibile una competizione reale tra il Pd e il M5s. Scommettere sulla competizione non significa necessariamente scommettere sul mandarsi gentilmente a quel paese ma significa piuttosto prepararsi ai mesi che verranno scegliendo con cura le proprie battaglie, decidendo con intelligenza i propri obiettivi, selezionando con sapienza i terreni da presidiare e rinunciando a fare del tema delle alleanze la principale e spesso unica chiave identitaria del proprio partito.

 

Vale per il Pd, che non ha più una buona scusa per costruire la propria identità solo in antitesi a qualche avversario, ma in fondo vale anche per il centrodestra, che già da anni a livello nazionale si muove in una logica proporzionalistica (chiedere a Meloni e Salvini) e che in prospettiva con una legge elettorale di questo tipo avrebbe certamente qualcosa da guadagnare. Ci guadagnerebbe qualcosa la Lega, che sarebbe costretta a mostrare il suo vero volto in campagna elettorale, magari arrivando anche a innescare un processo virtuoso di fusione con Forza Italia. Ci guadagnerebbe qualcosa Fratelli d’Italia, che potrebbe guadagnare qualcosa dalla sua competizione con la Lega. Ci potrebbero guadagnare persino i partitini di centro, che sarebbero costretti a scegliere da che parte stare: se tornare in uno dei partiti tradizionali o se dar vita a una federazione di piccoli partiti decisi a far pesare la propria identità moderata. Ci guadagnerebbe qualcosa anche il M5s, che avrebbe l’occasione di mettere in campo una proposta finalmente alternativa alla stagione del vaffanculismo. Ci guadagnerebbe certamente l’Italia perché costringerebbe tutti ad avvicinarsi a una nuova stagione facendo un passo verso il futuro, rifuggendo dalla nostalgia del passato ed entrando in una logica decisiva: passare dalla pigra stagione della distruzione degli avversari alla più ambiziosa stagione della costruzione di una nuova identità.  La scrematura delle minchiate politiche in fondo passa da qui: più competizione, meno union sacrée. Forse conviene pensarci su.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.