Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Istruzione, ricerca, innovazione. A Draghi serve il piano Amaldi

Federico Ronchetti

La lettera aperta per il rilancio della ricerca di base e applicata raccolse 33mila firme: con il nuovo premier ci si aspettava una svolta, che tuttavia tarda ad arrivare

Il 19 gennaio 2021 Matteo Renzi apriva la crisi di governo ritirando le sue ministre. Nell’intervento in Senato, Renzi elencava le ragioni che a suo dire lo hanno portato a una decisione drammatica, presa in piena pandemia e con il Recovery Plan praticamente da scrivere, citando, tra molte altre cose, anche la mancata implementazione del Piano Amaldi per la ricerca scientifica. Il Piano Amaldi per la ricerca è stato oggetto di attenzione pubblica e mediatica per buona parte dello scorso anno. La lettera aperta indirizzata al governo ha raccolto più di 33mila firme, quasi tutte di comuni cittadini che hanno compreso l’importanza dell’investimento in ricerca, non solo come avanzamento della conoscenza ma anche come motore dell’economia. Il Piano Amaldi chiede infatti il raddoppio degli investimenti pubblici a partire dall’anno in corso per arrivare all’1 per cento del Pil in sei anni, mantenendo il rapporto 2:1 tra ricerca di base e applicata: a oggi investiamo solo lo 0.5 per cento del Pil, ossia 9 miliardi di euro, mentre la Francia spende lo 0.8 per cento e Germania è già all’1 per cento del Pil (30 miliardi).

 

Esponenti politici come Carlo Calenda, Mara Carfagna (Ministra per il Sud) e Benedetto della Vedova (Sottosegretario agli Affari Esteri) hanno sostenuto pubblicamente il Piano Amaldi che, va ricordato, propone anche di innescare un circuito virtuoso di trasferimento tecnologico verso le imprese, per rendere il sistema produttivo italiano più competitivo sul mercato globale. L’entrata in maggioranza di questi esponenti politici, le parole che Mario Draghi ha usato in passato, distinguendo tra debito buono e debito cattivo, l’arrivo in ministeri chiave di personalità di alto profilo come Cristina Messa (Mur), Roberto Cingolani (Transizione ecologica) e Vittorio Colao (Digitalizzazione) hanno creato grandi aspettative circa il ricevimento del Piano Amaldi da parte del Governo e la sua incorporazione nel Piano di Rilancio e Resilienza (Pnrr). Il Piano Amaldi infatti non è una semplice richiesta di “più soldi”, ma nei suoi quattro punti articola una proposta di riforma del sistema della ricerca e prevede, oltre che finanziamenti una tantum, anche investimenti strutturali. Al momento però la situazione appare statica: ci saremmo aspettati, come primo atto della ministra della Ricerca, forti e chiare dichiarazioni pubbliche circa la validità del Piano Amaldi come piattaforma di base per una riforma. Ci saremmo aspettati uno stretto coordinamento con gli altri ministeri chiave sotto l’egida del premier Mario Draghi. E ci saremmo aspettati da parte del governo l’audizione delle personalità del mondo accademico e della ricerca che hanno sostenuto la campagna del Piano Amaldi per trasformarlo velocemente in azione di governo.

 

Nulla di tutto questo accade: anzi la polvere si deposita sul Piano Amaldi che viene diluito in una cacofonia di appelli e proposte che invece di “fare quadrato” attorno al piano mirano a spartirsi le briciole. Le domande al governo sono quindi queste. Primo. Perché il Mur non riceve e fa suo il Piano Amaldi come proposta base per la riforma del sistema della ricerca e non si avvale del contributo delle personalità che hanno portato avanti e sviluppato in dettaglio il piano? Secondo. Perché continua con una logica compromissoria nei confronti di accademia e enti di ricerca, così come verso gli interessi industriali, invece di dispiegare un modello “Fraunhofer italiano” (punto n.4 del Piano Amaldi) per il trasferimento tecnologico verso le industrie? Terzo. Perché il Piano Amaldi non è oggetto di interesse anche dei ministeri delle Attività produttive, della Transizione ecologica, della Digitalizzazione e anche del ministero del Sud? Le tecnologie che occorrono a questi ministeri vanno create e non solo comprate; al sud le grandi infrastrutture scientifiche creano indotto economico immediato al pari e più di altre opere pubbliche. Se l’Italia vuole evitare di finire all’angolo sia dal punto di vista economico che geopolitico e assicurarsi nei prossimi decenni uno sviluppo sostenuto, dell’ordine del 2-3 per cento del Pil, non può esimersi dall’investire massicciamente adesso nel triangolo della conoscenza (istruzione, ricerca, innovazione).

 

La natura dell’anomalia italiana è ormai chiaramente decodificata e, giunti a questo punto, è impensabile che il governo non agisca in modo deciso e tempestivo: se fallirà dovremo prepararci a una “terza ondata” di antipolitica che ci farà guardare con nostalgia a ciò che abbiamo vissuto finora.

 

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