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la lettera

Renzi's soft gen (e quel che ne restò)

Traiettoria del Rottamatore, attraverso il diario di un giovane adulto che lo incontrò e iniziò a votare 

Al direttore – Matteo Renzi lo conobbi alla Colonna serpentina, a due passi dalla magnifica Moschea Blu di Istanbul. Non ero solo, in verità, e lui sicuro non conobbe me. Era una mattina di primavera 2012: il candore dei miei diciott’anni quasi, del Sultano non ancora despota in una Turchia ignara, del Rottamatore fresco alle prime Leopolde. Però c’era già da prendere appunti. Un mio compagno di classe – nonché compagno della vecchia guardia – si nascose fra le giacche e imprecazioni represse “perché di quello non bisogna fidarsi”. I professori invece si fiondarono a stringergli la mano con grande baldanza, “perché quello farà strada” – non lo dissero, ma come se: valla a prevedere la Buona scuola – e con quell’autocompiacimento di chi ben sa di rappresentare la cultura. Foss’anche un liceo classico.
“Oh ‘giorno ragazzi”, fece il sindaco staccandosi un attimo dall’Agnese e dai figlioli che si sporgevano verso le rovine greche. “Di dove siete di bello?”
“Venezia!”
“Ah! Bravi bravi…c’avete la faccia vispa! Mica come i fiorentini che si fa casino tutta notte”.
Risatine. Poi una vocetta: “Babbo, babbo vieni a vedere!”
E il Matteo si congedò: “Allora buona gita eh! Studiate e divertitevi”. Qualcuno azzardò un “complimenti!”, ricambiato da un cenno d’intesa mentre sparivamo dietro l’angolo.

 

Il fatto era questo. Entrando nel luogo più venerato di tutta la Turchia, con l’inscalfibile leggerezza di chi ha ancora tutto da prendersi dalla vita ed è in potenza un astronauta, un romanziere, un dirigente d’azienda senza doversene preoccupare veramente, noi si parlava ancora di Matteo Renzi. “Ci sa fare”, mi ricordo fra le chiacchiere. “Non sembra neanche un politico”. Fra ragazzi poco si sapeva di quel che combinasse a Firenze, se non che aveva portato aria nuova. E così Istanbul confermava: avvicinabile, fortuito, alla mano. Certo, lì stava facendo il babbo. Ma mesi dopo ce ne saremmo ricordati. Per la mia generazione – l’ultima più vicina al 1990 che al 2000 – le politiche del 2013 sarebbero state le prime elezioni. E per quel nient’affatto rappresentativo campione di italiani di cui bene o male facevo parte – 90 per cento di futuri laureati, senza rabbia sociale, un po’ yuppie, molto europei, totalmente urbani – le primarie del centrosinistra ne erano il banco di prova.

 

Perché pochi, in quell’ambiente, potevano prendere in seria considerazione il partito del bunga-bunga, del Lodo Alfano, della riforma Gelmini – si era pur sempre studenti e contro qualcosa si manifestava, punto. Né era facile venire intrigati dall’austera e incartapecorita tradizione diesse interpretata da Pierluigi Bersani. Renzi era the third way. O almeno l’upgrade socialdemocratico in cui sperare. E più lui manovrava avvelenando nel profondo la vecchia politica, scopertasi all’improvviso cornuta e mediocre – ma soprattutto cornuta –, più la suddetta gioventù ci sperava. La prima volta finì male; complice però uno stallo alla messicana che nemmeno Sergio Leone, si capì che era solo questione di tempo. Poco. L’open day, la maturità e gli alpha test. Nuove primarie, Letta che si dimette, l’incarico di Napolitano. Meno di un anno più tardi noi siamo all’università e il sindaco è presidente del Consiglio.

 

C’è qualcosa di più della semplice constatazione autoreferenziale dell’essere cresciuti col nuovo che avanza. Quegli elettori alle prime armi – e per esteso le rispettive famiglie, conoscenze, micromondi mediamente agiati – costituivano la base del consenso renziano che il 25 maggio 2014 intercettò gli umori politici di un paese. Per un attimo e uno soltanto – o forse nemmeno quello: “il 40 per cento il Pd non l’ha mai avuto”, dirà poi l’ex segretario nel 2018 – il volubile italiano alle urne si è sentito un po’ yuppie e molto europeo. “La notizia fondamentale (e abbastanza inedita)”, si legge in un rapporto del Cise sulle elezioni del 2014, “è che le valutazioni di credibilità hanno contato per quasi la metà degli orientamenti politici di lungo termine”. Queste premiarono Renzi. E poi? Si confuse il nastro di partenza per il traguardo? Forse. Di sicuro, il Jobs act e lo Sblocca Italia rispondevano alla base e non alla bolla. Ma erano comunque interventi concreti. Tutto invece precipitò quando l’orientamento passò dai fatti alla persona. Alla personalizzazione. “Se perdiamo il referendum con la politica ho chiuso”, e invece no. “Ma come, tu quoque Matteo?”, si borbottava durante la tesi.

 

Figuriamoci allora l’angoscia dei giovani laureati, europeisti, progressisti – briciole, ormai – quando è toccato all’altro Matteo, rudimentale, sovranista, conservatore. Il paese ha fatto la muta, è un’altra stagione, la stessa base del consenso renziano inizia a stare mediamente sulle palle. Bruciato il nome del Rottamatore: da contenuto condivisibile, agli occhi degli italiani diventa inascoltabile contenitore. Non c’è Conte bis, Italia Viva, o pandemia che tenga. Eppure, chiunque subì l’allure di quella stagione in cui tutto poteva essere – astronauti già ne abbiamo? – e doveva essere migliore di quanto era stato, non può fare a meno di guardarlo in modo diverso. Vagamente compassionevole. Renzi che si oppone ai pieni poteri, Renzi al 2 per cento che alza la voce – ma tre anni fa si lamentava: “non possiamo dare potere di ricatto ai partitini” –, Renzi che aggiusta il Recovery fund e poi innesca la crisi di governo in piena emergenza sanitaria. Difficile capirci qualcosa. Anche quella generazione di velluto gli è ormai lontana, nel tempo e nei percorsi. Ma è lontana anche dalla reazione feroce che sui social oggi divampa contro l’ex sindaco. Third way, appunto. Come per antico rispetto di un’illusione. Ex ippodromo di Costantinopoli, quando il mondo era un altro.

Francesco Gottardi

 

 

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