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Difendiamo l'ambiente, ma con l'agenda Draghi non con l'agenda Greta

Claudio Cerasa

Come utilizzare al meglio le risorse europee in arrivo  per la transizione green. Più concorrenza, più tecnologia, meno inefficienze. Perché proteggere il futuro dell’ambiente con il progresso è possibile

Può sembrare un tema molto remoto in una stagione politica scandita dall’evoluzione della pandemia, dall’approvvigionamento dei vaccini, dalla velocità delle somministrazioni, dal monitoraggio delle varianti, ma il tema che stiamo per proporvi sarà incredibilmente centrale negli anni che verranno e in particolare comincerà a esserlo a partire dal primo maggio di quest’anno, quando un attimo dopo la presentazione del Recovery plan alla Commissione europea l’Italia dovrà dimostrare di saper cogliere che differenza c’è, quando si parla di ambiente, tra l’agenda Draghi e l’agenda Greta. La storia la conoscete e l’avete letta su queste pagine qualche settimana fa quando Carlo Stagnaro ci ha ricordato che il 37 per cento delle risorse di Next Generation Eu andrà obbligatoriamente impegnato su progetti relativi alla trasformazione green e che l’Italia da anni si è anche impegnata insieme con gli altri stati membri dell’Unione a sostenere enormi investimenti per raggiungere l’obiettivo di lungo termine di azzerare le emissioni nette di CO2 e altri gas serra entro il 2050 riducendole già del 55 per cento nel 2030 rispetto ai livelli del 1990.

 

La capacità dell’Italia di riuscire a parlare in modo non retorico di ambiente non è più dunque solo un tema che ha a che fare con la teoria ma è un tema che ha a che fare finalmente con la pratica. E in particolar modo ha a che fare con la necessità di utilizzare i 73 miliardi di euro che arriveranno dall’Europa in questo ambito in qualcosa di più di una semplice sovvenzione di sterili ideologie. E per farlo la chiave è una ed è quella suggerita proprio da Mario Draghi nel suo primo discorso da presidente del Consiglio: “Dobbiamo proteggere il futuro dell’ambiente conciliandolo con il progresso e con il benessere sociale. E per farlo serve un approccio nuovo”. Nuovo, già, ma in che senso? La chiave per un nuovo approccio sui temi dell’ambiente passa dalla capacità della classe dirigente politica di utilizzare l’occasione dei finanziamenti europei per dimostrare una verità che spesso sfugge anche agli osservatori più attenti: il modo migliore per proteggere l’ambiente non è combattere il mercato aperto ma è provare a salvaguardarlo nella consapevolezza che investire sulla concorrenza, incoraggiando cioè le imprese a utilizzare al meglio le risorse disponibili, è il modo migliore per innescare nei paesi un processo virtuoso caratterizzato da una maggiore efficienza produttiva.

 

La concorrenza – ha scritto l’Antitrust nella sua splendida relazione presentata la scorsa settimana al governo, relazione misteriosamente ignorata dai grandi giornali e dai grandi partiti ma che ci auguriamo sia stata letta con attenzione dal ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani, il cui approccio sui temi ambientali si trova all’estremo opposto rispetto al conservatorismo dell’ex ministro Sergio Costa, grazie al cielo sparito di scena – può favorire il processo di transizione verso un modello di crescita sostenibile sotto il profilo ambientale nella misura in cui riesce a favorire una migliore allocazione tra le imprese dei fattori di produzione, incluse le risorse naturali. Applicata ai temi dell’ambiente, poi, la concorrenza consente anche di mantenere sul mercato le imprese più virtuose che adottano le tecnologie più efficienti dal punto di vista energetico e stimola le imprese a innovare attraverso il miglioramento di processi produttivi e la creazione di nuovi prodotti che limitano le emissioni di CO2. Per proteggere l’ambiente, ricorda l’Antitrust, occorre proteggere il paese dalle inefficienze e per proteggere il paese dalle inefficienze bisogna riconoscere che “la concorrenza esercita un potente incentivo a utilizzare le scarse risorse del nostro pianeta in modo corretto”.

 

Perché no, non vi è un dilemma ontologico tra la concorrenza e lo sviluppo sostenibile. Perché no, non è il modo migliore per proteggere l’ambiente quello di portare avanti modifiche normative volte a non eliminare le ingiustificate discriminazioni che esistono tra gestore pubblico e operatori privati nella gestione dei rifiuti urbani. Perché no, non si può non capire che la promozione della concorrenza nella filiera di gestione dei rifiuti indifferenziati non può prescindere da una omogenea diffusione sul territorio nazionale dell’impiantistica di termovalorizzazione. Perché no, non si può non capire che un paese che vuole perseguire contemporaneamente l’obiettivo europeo della drastica diminuzione della produzione dei rifiuti e l’obiettivo della progressiva riduzione dello smaltimento in discarica non può più perdere tempo dietro ai pifferai magici dell’ambientalismo all’amatriciana (sul tema del riutilizzo dei beni impiegati nei cicli produttivi l’Italia, sulla base dei dati Eurostat relativi al 2019, ha registrato un tasso di riutilizzo pari a circa il 19 per cento, un livello superiore alla media europea e al valore registrato in paesi come la Germania, mentre secondo l’ultimo censimento effettuato dal rapporto rifiuti urbani realizzato da Ispra per quanto riguarda la percentuale dei rifiuti urbani presenti in discarica lo smaltimento in discarica ha interessato il 21 per cento dei rifiuti, percentuale ancora lontana dall’obiettivo del 10 per cento entro il 2035 fissato dalla direttiva Ue 850/2018). Draghi o non Draghi, nei mesi che verranno l’Italia si ritroverà a mettere in campo un nuovo modello di ambientalismo pragmatico – vale per l’agenda di governo ma vale anche per l’agenda di alcuni partiti come il Pd e come il M5s autoproclamatisi ambientalisti senza spiegare nulla della propria strategia ambientalista che non sia qualche cuoricino sui tweet di Greta Thunberg – e questo nuovo modello dovrà decidere presto da che parte orientarsi. Da una parte c’è l’idea di dover difendere l’ambiente dal progresso. Dall’altra c’è l’idea di dover difendere l’ambiente con il progresso. Le strade sono queste e sono strade cruciali da cui passa la definizione di una strategia di lungo periodo: pensare la transizione ecologica in modo tale da renderla compatibile col nostro stile di vita e con il mantenimento di un settore industriale attivo e innovativo. Difendere l’ambiente con il progresso si può. Basta capire che differenza c’è tra il modello Draghi e il modello Greta.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.