dall'archivio

Quando a Livorno nacque il Partito comunista

Il 21 gennaio del 1921, al termine del Congresso di Livorno, ci fu la scissione all'interno del Partito socialista che fece nascere il Partito Comunista d'Italia

Fu il 21 gennaio del 1921, al termine XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, che avvenne lo strappo definitivo. Fu quel giorno a Livorno che l'ala più a sinistra del Partito Socialista Italiano, quella guidata da Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga, Onorato Damen, Bruno Fortichiari, Antonio Gramsci e Umberto Terracini, decise che l'unità operia non doveva essere più unita, ché ci voleva qualcos'altro per realizzare "la grande unione del proletariato nazionale ed internazionale", come aveva esortato Filippo Turati. E questo qualcos'altro era un nuovo partito che seguisse la Russia, ciò che il II Congresso dell'Internazionale Comunista aveva chiesto, ossia l'espulsione di ogni riformista e il mutamento di nome dei partiti in "Partito Comunista". Una richiesta respinta dalla maggioranza del Psi, seguita invece da una ampia minoranza che si unirono sotto il nome di Partito comunista d'Italia (Pcd'i).

 

Una sigla, almeno vista con gli occhi di oggi, "un po' ridicola, forse perché, a differenza di Mark Zuckerberg alle prese con la creazione del suo 'the facebook', ad Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga nessuno suggerì al momento buono qualcosa di simile al celebre 'drop the the', vale a dire di buttare la 'd', o almeno l’apostrofo", scriveva a fine novembre Francesco Cundari ragionando su quel che resta oggi del vecchio Pci dopo aver letto gli ultimi tre libri usciti sul centenario del Partico Comunista: quello di Ezio Mauro (“La dannazione”, Feltrinelli), quello Marcello Sorgi e Mario Pendinelli (“Quando c’erano i comunisti”, Marsilio) e quello Andrea Romano (“Il partito della nazione”, Paesi).

   

    

Un centenario questo che non vedrà Rossana Rossandra, che "è stata comunista sempre, nonostante il comunismo, per così dire, e sempre legata all’idea del partito, anche dopo essere stata buttata fuori dal partito in cui era cresciuta", figlia della "disponibilità a mettere in discussione ciò che è avvenuto, il leninismo della rivoluzione russa, l’idea stessa della rivoluzione – probabilmente sempre “immatura”, e “se sia pensabile una rivoluzione senza guasti insanabili”, scriveva Adriano Sofri il giorno della morte.

   

    

E non lo vedrà neppure Emanuele Macaluso, prima deputato e poi senatore del Pci, che "l’Italia repubblicana ricostruita, sviluppata e poi incivilita fino a una precoce decadenza l’aveva frequentata, amata, tutta. L’aveva fatta, quell’Italia, con il sindacalismo, l’apparato comunista in compagnia del Principale, la manovra siciliana e nazionale nelle assemblee, perfino il Milazzismo, un governo antidemocristiano costruito con l’appoggio della destra, un “connubio” cavouriano nella terra di Garibaldi conquistatore", come ieri ha ricordato Giuliano Ferrara.

   

    

Un centenario che riporta d'attualità anche l'epistolario dal carcere di Antonio Gramsci e soprattutto quella lettera del 14 ottobre 1926 inviata a Togliatti, ma che Togliatti non inoltrò mai al Comitato centrale del Partito comunista sovietico, che “appare ispirata per aspetti essenziali dalla lettura del ‘testamento’ di Lenin”, e che è diventata con il passare del tempo “forse il singolo documento più controverso, fatale e lungamente sottoposto a oblio nella storia del comunismo italiano”, scriveva Adriano Sofri, che sottolineava come "le virtù di tante donne e uomini che sono stati comunisti sotto il fascismo e nella repubblica debbano smettere di agire secondo una teleologia rovesciata, facendo celebrare una scissione che fu una sciagura per la democrazia e per il socialismo: giudizio drammaticamente sereno che può esser detto con le parole di Antonio Gramsci".

 

      

Il Partito comunista si è disciolto nella storia, la sua ideologia no, o almeno non del tutto. Quel che resta è la profezia che Filippo Turati aveva lanciato dalla tribuna del congresso di Livorno: “Avete sbagliato, ma tornerete da noi”. "E difatti nel 1989 quell’insegna divenuta infamante, “comunisti”, gli eredi degli scissionisti del 1921 la buttarono giù quale un ferrovecchio", scrisse Giampiero Mughini.