"Il Foglio pagherà", diceva Borghi. Ma il giudice dà ragione al nostro giornale

L'allora presidente della commissione Bilancio accettò di ammorbidire un parere contro le istituzioni europee nel marzo 2019. Lo raccontammo e lui ci querelò per diffamazione. Il tribunale di Milano riconosce le nostre ragioni: "sussiste la verità dei fatti posti a base dell'articolo"

"Sono balle facilmente dimostrabili", garantiva il deputato della Lega annunciando querela. Ma il tribunale di Milano ha dimostrato solo che a raccontare balle non eravamo noi. Il trucismo alla prova del diritto di cronaca

A sentire lui, non c'erano dubbi. "Hanno scritto robe particolarmente fastidiose avvitate su balle facilmente dimostrabili", assicurava su Twitter Claudio Borghi, argomentando di giornalismo, deontologia e diritto con la stessa autorevolezza con cui, da anni, illustra le virtù del ritorno alla lira. "Ma poi è incredibile la sciatteria", insisteva il deputato leghista, all'epoca consigliere economico di Matteo Salvini. "Se vuoi confezionare una balla per ribaltare un successo e farlo sembrare una sconfitta almeno informati un minimo, niente, non una riga vera a partire dai nomi e tutto documentabile con semplici verbali".

 

Era il 7 marzo del 2019, quando il Foglio pubblicò un articolo dal titolo: "Rimosse le critiche all'euro in commissione Bilancio. Borghi cede alla Castelli". Era il 7 marzo, governo gialloverde ancora imperante, e Claudio Borghi se la prese per un nostro articolo, scritto da Valerio Valentini. Se la prese e annunciò querela. Non era una finzione. Procedette davvero per le vie legali, il deputato leghista. Sporse querela contro l'autore del pezzo e il direttore del quotidiano, Claudio Cerasa, per diffamazione a mezzo stampa, sostenendo che l'articolo incriminato "conterrebbe affermazioni diffamatorie" nei suoi confronti "e sarebbe, per intero, diffamatorio ai suoi danni" aggiungendo poi che "alcune affermazioni riportate sarebbero false". 

 

L'articolo in questione raccontava di come la commissione Bilancio della Camera, allora presieduta da Borghi, avesse dibattuto non poco prima di esprimere un parere sulla legge che regola la partecipazione italiana all'Unione europea. Scrivevamo: "Ebbene, la commissione Bilancio ieri ha espresso parere favorevole, pur con l’aggiunta di una “condizione”, e cioè che “siano adottate in tutte le sedi istituzionali dell’Ue iniziative volte a sospendere, ove possibile, ogni determinazione conclusiva” sui trattati e le riforma in discussione a Bruxelles “nell’attesa degli esiti delle prossime consultazioni per l’elezione del Parlamento europeo”Postilla bizzarra che, se presa alla lettera, di fatto imporrebbe al governo Conte di restare inerte, e limitarsi semmai al mero ostruzionismo, su tutti i tavoli europei da qui a maggio, sperando in un “cambiamento del quadro politico” a Bruxelles che la stessa commissione Bilancio definisce solo “possibile”". Dopodiché, davamo conto di come, più che la postilla inserita nel parere, era assai rilevante quel che nel parere non c'era finito. Perché nella seduta precedente, quella del 26 febbraio, per conto della Lega si era espresso il capogruppo in commissione Bilancio, Giuseppe Bellachioma. Il quaule s'era lanciato in una dura filippica contro le istituzioni europee, il Meccanismo europeo di stabilità, il principio del vincolo esterno e le politiche monetarie della Banca centrale europea. Tutti giudizi, questi, ammorbiditi e smussati, e in buona parte rimossi, nel parere finale. Concludevamo: "A cosa sia dovuto questo cedimento di Borghi è difficile stabilirlo con esattezza. Quello che è certo è che Laura Castelli, la sottosegretaria grillina al Mef, parlando alla buvette coi suoi colleghi del M5s mercoledì pomeriggio, raccontava di aver “detto chiaro e tondo a Borghi che quelle considerazioni antieuropeiste contenute nella premessa del parere devono cambiare, altrimenti il governo pone il veto”. Sarà per questo che, anche l’indomito no euro Borghi, si è adeguato".

 

D'altronde, a confermare che le pressioni erano state notevoli, anche all'interno dell'allora maggioranza gialloverde, intorno alla stesura del parere, era stato lo stesso Borghi a confermarcelo. Allora non lo riportammo, ma una delle nostre fonti, forse involontariamente, era stato proprio il deputato leghista. Il quale il 6 marzo 2019, forse per esaltare di fronte ai suoi follower il proprio ruolo di custode dell'ortodossia antieuropeista, di sentinella sempre all'erta contro le imboscate dell'establishment, su Twitter aveva parlato di "pressioni ovunque", spiegando che scrivere il parere in questione era stato "incredibilmente complicato"

 

E però, l'indomani, Borghi annunciava la querela. E d'altronde per lui era già tutto scritto: finale scontato e garantito. "Perfetto. Pagheranno e meglio così", diceva riferendosi al nostro giornale. 

 

La pensò diversa il pm, in verità. Che a fine luglio, al termine delle indagini, fece richiesta di archiviazione, non riscontrando evidentemente alcun reato. Ma Borghi non s'arrese. E s'oppose a questa richiesta di archiviazione. E così, dopo mesi di attesa, il 20 novembre si è arrivati all'esito finale della faccenda: il gip presso il tribunale di Milano, con una sua ordinanza, ha disposto l'archiviazione del procedimento. Per il gip, d'altronde, "sussiste la verità dei fatti posti a base dell'articolo", "sussiste l'interesse pubblico alla notizia", "le espressioni usate nell'articolo sono continenti e pertinenti": e insomma, "la denuncia per diffamazione a mezzo stampa presentata è, dunque, infondata". 

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