Mario Monti, ex presidente del Consiglio e senatore a vita (foto LaPresse)

il dibattito sul referendum

Monti ci spiega perché, pur auspicando il taglio dei parlamentari, voterà No

Redazione

Nel programma di Scelta civica del 2013 il "dimezzamento" di deputati e senatori era indicato come una priorità. Ma senza una nuova legge elettorale, e col plebiscito referendario incombente, sarebbe un regalo al populismo di Rousseau

"Dimezzare il numero dei parlamentari". Era il primo punto tra le venti priorità, nel programma con cui la sua Scelta civica chiedeva il voto agli italiani alla vigilia delle elezioni politiche del marzo 2013. "Un Parlamento più snello – scriveva Mario Monti nella sua lista di riforme – costa meno, garantisce una migliore qualità della classe politica e celerità nella produzione legislativa, senza limitare l'esercizio della democrazia". E dunque oggi, nel bel mezzo del dibattito pubblico intorno al referendum costituzionale del 20 settembre, abbiamo chiesto all'ex presidente del Consiglio e senatore a vita se la sua posizione, rispetto all'opportunità di ridurre il numero di deputati e senatori, sia ancora la stessa. 

"La mia posizione – ci risponde Monti – è la stessa. Serve dimezzare il numero dei parlamentari e serve anche una nuova legge elettorale per restituire ai cittadini la scelta dei propri rappresentanti", aggiunge il senatore, ricordando in effetti anche l'altro punto indicato come prioritario nel programma elettorale di Scelta civica sotto la voce "Ridurre i costi della politica". 

Ed è per questo, dunque, che il 20 settembre Monti voterà No. "Voterò contro, perché il taglio dei Parlamentari ha un senso solo se accompagnato da una riforma della legge elettorale e dei regolamenti parlamentari. Altrimenti si cede solo alla demagogia, e sarebbe ora che questo paese smettesse di pagare il prezzo delle promesse del M5s, sull'antipolitica come sul Mes, solo perché si è eretto a guida spirituale del paese un brillante ex comico". 

 

Non vede, però, alcuna contraddizione, Monti, tra la sua posizione del 2013 e quella attuale. "Infatti – spiega – rispetto ad allora sono cambiate due cose". Eccole.

 

"Innanzitutto, la 'presa' dei capi dei partiti sulla composizione delle liste, e quindi sulla loro condotta una volta eletti, si è ancora di molto rafforzata. Una vittoria del Sì comporterebbe, in mancanza di una nuova legge elettorale (che resta ipotetica), non un alleviamento ma anzi verosimilmente un aggravarsi del fenomeno del 'capo-padrone', a scapito della effettiva rappresentanza dei cittadini".

 

"In secondo luogo – prosegue Monti – nel 2013 non si sarebbe trattato di un referendum, nel quale l'affermazione del Sì avrebbe il significato predominante di una vittoria per il populismo, in particolare del M5s. Cioè di quell'ampio filone populista che, oltre a far arretrare il rapporto armonioso e sinergico tra Italia e Unione europea, ha fatto strame proprio del principio della rappresentanza popolare, con improbabili danze propiziatrici intorno ad un 'gioco di società (sic)' chiamato Rousseau".

 

Quanto ai minori costi, Monti non condivide la retorica corrente. "Il modesto risparmio per il bilancio dello stato sarebbe secondo me un beneficio ben inferiore al costo di un passo ulteriore nella deriva dell'Italia verso l'approssimazione e l'illusionismo populistico dei gesti identitari e delle bandierine, che nulla hanno a che fare con la serietà dei problemi gravi che l'Italia deve affrontare".