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La storia, anche recente, rivista per via giudiziaria e le fosse del senno di poi

Claudio Cerasa

Un filo sottile collega la furia cieca dei nuovi poliziotti del politicamente corretto con la sfilata dei procuratori di Bergamo, colpita dal Covid, davanti a Palazzo Chigi

C’è un filo sottile, forse impercettibile ma non per questo ininfluente, che lega in modo curioso due storie che negli ultimi giorni hanno colpito l’attenzione di molti osservatori. La prima storia riguarda la furia cieca dei nuovi poliziotti del politicamente corretto contro alcune opere del passato, film, telefilm, statue, monumenti, sculture, opere che se osservate con uno sguardo pigro, superficiale e qualunquista, contestualizzato rispetto alla stagione in cui viviamo, possono prestare il fianco a un osceno processo di revisionismo culturale, una volta iniziato il quale si sa da dove si comincia (Cristoforo Colombo, Churchill, Hazzard, “Via col vento”) ma non si sa dove si finisce (il Colosseo era usato per esibire gli schiavi, che aspettiamo ad abbatterlo? e “Vacanze di Natale” dei Vanzina prendeva in giro i camerieri non bianchi, che aspettiamo a ritirare tutte le pellicole dal commercio equo, corretto e solidale?). La seconda storia riguarda invece la notevole eccitazione mediatica generata dalla sfilata concessa, si fa per dire, dai procuratori di Bergamo di fronte a Palazzo Chigi, e per quanto possano essere pacifiche le intenzioni dei magistrati di Bergamo (di procura di Trani ce n’è una e basta e avanza quella) è difficile non intravedere nella traiettoria imboccata dai pm la volontà di mettere a fuoco non solo un semplice ed eventuale reato commesso ma anche qualcosa di più importante: una verità storica da certificare con l’autorevole bollino di una procura. 

 

 

Le due questioni, messe così, possono apparire molto distanti l’una dall’altra, ma se le si guarda con attenzione presentano un tratto in comune non irrilevante: la volontà di riscrivere alcune storie del passato utilizzando le lenti distorte del presente. E così come è un errore osservare simboli e icone del passato con le decontestualizzanti chiavi di lettura del presente, allo stesso modo è un errore osservare una tragedia del passato prossimo del nostro paese, come la stagione acuta della pandemia, con le decontestualizzanti chiavi di lettura disponibili in questo momento. Del senno di poi, direbbe forse oggi Alessandro Manzoni, ne son piene le fosse, e se ci si pensa bene la grancassa mediatica che soffia sulle vele della procura di Bergamo sta cercando in modo più o meno indiretto di spingere i magistrati a dimostrare ciò che semplicemente non si può dimostrare. Ovverosia che l’Italia, nella gestione della pandemia, ha commesso errori che altri paesi non hanno compiuto, e che per questa ragione chi ha governato la stagione del virus merita di essere rimosso con la stessa violenza con cui in giro per il mondo si abbattono le statue. Coloro che in questi giorni stanno tentando di leggere i fatti degli ultimi mesi utilizzando questa chiave di lettura non stanno semplicemente facendo confusione tra codice penale e codice morale (in politica, non tutto ciò che si considera sbagliato può essere codificato come reato e la discrezionalità del potere giudiziario deve sempre finire lì dove inizia la discrezionalità del potere esecutivo) ma stanno anche tentando di rimuovere una verità difficilmente contestabile che suona grosso modo così: i problemi drammatici che l’Italia ha avuto nella gestione della fase pandemica non sono problemi che hanno riguardato esclusivamente l’Italia ma sono problemi che a ben vedere hanno riguardato buona parte dei paesi che hanno avuto a che fare con la pandemia. Pensate alle Rsa, per esempio.

 

In Italia, il 65 per cento delle morti per Covid-19 è stato registrato nelle Rsa. Tra Milano e Lodi le morti, in queste strutture, sono state il 46 per cento del totale. In Belgio, nelle strutture dedicate agli anziani vi è stato, solo a maggio, il 51 per cento dei decessi per Covid. In Spagna le vittime nelle case di riposo sono state il 66 per cento del totale. In Francia il 50 per cento. In Norvegia il 61 per cento. In Svezia e in Scozia il 45 per cento. E come ammesso qualche settimana fa dal direttore dell’area europea dell’Oms, Hans Kluge, fino alla metà dei decessi avvenuti per Covid-19 in Europa si è registrata in queste strutture. Lo stesso vale per il personale medico infettato e deceduto a causa dei protocolli stabiliti purtroppo con scarso tempismo in tutto il mondo (i medici infettati e deceduti sul totale del paese sono arrivati al 14 per cento in Spagna, all’otto per cento negli Stati Uniti, al 10 per cento in Italia). E come segnalato sabato scorso dal Corriere della Sera, le denunce contro la politica non sono solo in Italia ma sono ormai in tutto il mondo (da Londra a New York, e solo a Parigi la scorsa settimana ci sono state ottanta denunce).

 

 

La storia si può tentare di riscrivere, ci mancherebbe, ma prima di riscriverne una nuova bisognerebbe conoscere quella vera, e bisognerebbe avere il coraggio di non chiudere gli occhi di fronte a tutto quello che è successo negli ultimi mesi. Ad aggravare la pandemia non è stato il partito del denaro, non è stata l’irresponsabilità della politica, non è stata l’incoscienza dei governanti, non è stata la smania di protagonismo dei virologi, ma è stata l’incertezza generata da una delle crisi sanitarie più violente mai conosciute dall’uomo in epoca moderna, che ha portato morti ovunque, senza fare distinzioni di ceto, e che ha costretto medici, operatori sanitari e politici a lavorare a lungo, sotto uno sguardo troppo a lungo imbelle di un Oms ostaggio della Cina, in uno stato di necessità, senza linee guida, o senza programmi terapeutici noti e approvati. In questo senso, un paese che vuole fare di tutto per proteggere in futuro i suoi cittadini, oltre che far sentire protetti i medici che hanno operato in condizioni di emergenza durante la pandemia offrendo loro uno scudo penale, eccezion fatta per i casi relativi al dolo, dovrebbe fare di tutto non per riscrivere la storia ma per provare a scriverne una diversa cercando di capire per esempio se è solo un caso che uno dei pochi paesi al mondo che ha gestito l’emergenza in condizioni di emergenza, ovvero la cattivissima Germania, un paese che in modo davvero incomprensibile risparmia molto quando si può risparmiare e spende molto quando si deve spendere, è lo stesso paese che da anni l’opinione pubblica italiana, piuttosto che indicare come modello da seguire, indica come modello da combattere. Basterebbe tutto questo per segnalare i molti cortocircuiti presenti nella storia del revisionismo storico alimentato per via giudiziaria se non fosse che c’è un ultimo cortocircuito spassoso che merita di essere segnalato in coda al nostro ragionamento.

 

Ci avete fatto caso? Coloro che oggi tifano per l’incriminazione del governo, sulla zona rossa, sono gli stessi che ai tempi chiedevano di non chiudere nulla e sono gli stessi che hanno vissuto la stagione del lockdown con maggiore insofferenza (vogliamo libertà!). Mentre, dall’altra parte, i politici che oggi guardano con sospetto i pm sono gli stessi ma proprio gli stessi che negli ultimi decenni hanno fatto di tutto per dare ai pm potere di vita e di morte sulla politica. Come direbbe Manzoni: del senno di poi ne son piene le fosse.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.