Una statua di Juan Ponce de León al Bayfront Park di Miami vandalizzata durante le manifestazioni di questi giorni (LaPresse)

La grande amnesia

Giulio Meotti

Il disprezzo per il passato e l’ossessione per il futuro. “La nostra cultura rischia la pagina bianca”. Intervista a Francis O’Gorman

Disprezzo sdegnoso per il passato, dimenticanza della storia e ossessione per il futuro. La postmodernità che si fonda sull’aspettativa fervida e ideologica del desiderio di cambiamento, ma che appare solo come la maschera del più rigoroso conformismo. Stiamo rimanendo orfani. E’ “Forgefulness”, il libro di Francis O’Gorman, docente di Letteratura inglese all’Università di Edinburgo. Guarda con tristezza e sgomento quanto quanto succede da giorni in Inghilterra, dove statue legate al passato coloniale e schiavista dell’impero britannico sono rimosse in bella vista.

 

Penso che ci sia un vero pericolo nel fare la politica della storia, che ci faccia dimenticare ciò che dovremmo tenere a mente”, dice O’Gorman al Foglio. “Ovviamente, non è difficile capire perché i proprietari di schiavi e i colonialisti che sono l’attuale obiettivo della protesta debbano non piacere e finire al centro della rabbia. Ogni volta che passo davanti alla statua fatta da Hamo Thornycroft di Oliver Cromwell fuori dal Palazzo di Westminster deploro le azioni di Cromwell in Irlanda e il caos che ha portato nel Regno Unito. Ma distruggere la statua sarebbe come se non fosse esistito. La statua di Colston a Bristol e di Rhodes a Oxford potrebbero, secondo me, finire nei musei. Ma cercare di dimenticare la storia semplicemente cancellando le immagini è un pericolo”.

 


“Tra gli intellettuali liberal c’è ormai una sorta di abitudine, quando si affacciano sul passato, a denigrarlo”. “Freud ci ha spiegato che non possiamo fare a meno di ciò che è nuovo, ma che il nuovo è anche teatro di grandi traumi”


 

Denigrare il passato è ormai un segno di rispettabilità intellettuale. “E’ la preferenza, tra gli intellettuali liberal, per un nuovo tipo di storia in cui il passato deve essere esaminato principalmente per esporre i suoi fallimenti. In aspri dibattiti sull’immigrazione e gli attacchi all’appropriazione culturale nelle università, la storia occidentale viene ripudiata come una zona di criminalità e barbarie”. E’ l’idea, continua O’Gorman, “che tutte le culture sono ugualmente accettabili e da affermare in ogni momento. Il multiculturalismo presuppone, sebbene implicitamente, che poiché ogni cultura ha il diritto di essere rispettata o almeno di essere libera da giudizio, una varietà di culture può coesistere armoniosamente nello stesso spazio ospitato mantenendo le proprie identità. Questo concetto di mutua armonia è talvolta unito, nelle menti degli intellettuali liberal più estremi, ad argomentazioni più audaci secondo cui ‘identità nazionale’ e ‘identità culturale’ sono miti, forme di falsa coscienza o strumenti ideologici divisivi”.

 

O’Gorman parla di vero e proprio “disagio dalla storia”. “La prima dimenticanza furono i cambiamenti intellettuali – per parlare in grandi generalizzazioni – coinvolti nel passaggio dalle culture della memoria dell’antico Mediterraneo alle preoccupazioni moderne verso il futuro. L’antica Grecia e Roma avevano il rispetto privilegiato per il passato come motivo di identità. Lo si vede dal loro rispetto per gli antenati, ma più ampiamente nella loro comprensione delle tradizioni locali, dei costumi e delle fedi di una città, essenziali per l’appartenenza. Sono interessato a paragonare l’antica cultura della memoria alla nostra, per far emergere più chiaramente come ci sia l’amnesia della modernità. Traccio i cambiamenti intellettuali dal mondo antico attraverso, ad esempio, sant’Agostino, la Rivoluzione francese, la nascita del futurismo e così via. Ma a parte questo sono interessato agli sviluppi tecnologici dall’inizio del XIX secolo in poi, che ha incoraggiato la definizione di priorità per il futuro e sempre più l’indifferenza per il passato. Questo è un problema importante perché riguarda le norme mentali, per così dire, a cui ci siamo abituati senza necessariamente renderci conto di ciò che ci fanno fare nello spezzare storie e tradizioni. Non voglio essere nostalgico o idealizzante. Ci sono molte cose nel passato da cui siamo felici di esserci liberati. Ma nelle università moderne c’è una sorta di banalizzazione del passato e, allo stesso tempo, la sensazione che il passato sia lì solo per essere rimproverato. Il dominio delle idee liberal sulla storia ha convinto gli intellettuali che la posizione più sicura e autoaffermativa da adottare nei confronti del passato è quella della critica. Questa è un’idea che si è intersecata con i problemi causati dalla svolta linguistica. Gli atteggiamenti liberal nei confronti dello studio delle conquiste storiche si sono ora sufficientemente installati nella vita intellettuale, e nei presupposti politici, critici e culturali di coloro che sono stati educati all’interno della tradizione neoliberal, che sono diventati quasi impossibili da mettere in discussione. Questi atteggiamenti hanno ottenuto la curiosa condizione di essere un indicatore di status, problematizzando il dibattito perché la più debole delle menti liberal ha saputo difendersi dalle critiche affermando che ogni tipo di sfida deve essere, a un certo livello, eticamente sospetta, indice di intolleranza o di pregiudizio dell’avversario. Nel peggiore dei casi, questo ha visto la proibizione piuttosto che la discussione, la censura piuttosto che l’analisi”.

In tempo di globalizzazione, la memoria eppure è decisiva. “Ci si chiede come sarà la globalizzazione dopo il Covid-19. Ma il punto più ampio riguarda il motivo per cui la memoria è importante. Le comunità dalle tradizioni condivise, con un senso collettivo di ciò che è stato fatto, di ciò che è stato realizzato, sono più forti. Ciò che mi preoccupa della globalizzazione è ciò che preoccupa altre persone: la globalizzazione sembra promettere molteplicità, ma ciò che effettivamente raggiunge è un noioso conformismo. La memoria ci racconta delle straordinarie e diverse conquiste del passato (quando sono ammirevoli, ovviamente) e ci introduce alla sorprendente alterità della storia, alla sua stranezza e alla sua presenza. Guardando le tradizioni e le conquiste storiche, non troviamo nulla che sia semplicemente statico, ma realizzazioni che sono sempre disponibili per essere rivalutate, ripensate. I successi della storia non sono congelati, ma ci chiamano sempre a riflettere più intensamente su ciò che il passato ha fatto, cosa potrebbe significare e cosa continua a vivere in modo utile tra i morti”.

 

O’Gorman introduce una prospettiva psicoanalitica. “Ci sono così tante cose da dire su Freud in relazione all’oblio. Una delle maggiori sfide psichiche è, come la percepisce Freud, adattarsi al nuovo. Freud ci ha pensato attraverso un mito. La sua stanza era piena di manufatti di antiche religioni. E la sua mente era assorbita dalla capacità potenzialmente utile dei miti e delle religioni di suggerire modi di pensare alla nostra vita e ai nostri problemi psichici. La storia di Edipo ci dice che un desiderio per il nuovo è, pensa Freud, sia innato negli esseri umani sia teatro di disastri. Qualcosa nella vita psichica, riflette Freud, rende il nuovo oggetto di intenso desiderio e qualcosa che non possiamo sopportare. Cosa facciamo alle nostre vite psichiche vivendo in culture che continuano a dirci che il nuovo è ciò di cui abbiamo bisogno e che dovremmo desiderare? Quali sono le conseguenze psichiche della rottura con il nostro passato alla ricerca di ciò che non possiamo sopportare?”.

 

Questa novità perenne è una pressione al conformismo. “Ci sono molti modi in cui – deliberatamente o accidentalmente – la cultura moderna ci incoraggia a conformarci all’idea generale che ciò che conta è ciò che verrà dopo. Ciò che conta, in questi termini, è il nuovo. Questa priorità per la novità c’è anche nell’insegnamento. La domanda che le università si pongono prima di tutto su un docente è ‘cosa c’è di innovativo in questo insegnamento?’. Non senti mai ‘ciò che è sensato?’. Per non parlare di ‘ciò che è buono?’. E sì, questo produce un notevole livello di conformismo nascosto sotto forma di nuovo”.

 


“Siamo dentro all’ideale di Karl Marx, per il quale avremmo raggiunto lo stato ideale quando si fosse fermata la storia”.“Il dibattito sull’immigrazione si è a tal punto polarizzato che è diventato praticamente impossibile”


 

Secondo O’Gorman lo stesso multiculturalismo, portato alle estreme conseguenze, si basa su quest’oblio della storia. “Da un lato, è per me una grande gioia poter condividere, per così dire, ricordi culturali che non sono miei. Sono stato a lungo affascinato dall’Armenia e dalle usanze armene ed è un privilegio, credo, poter conoscere rispettosamente qualcosa di altre culture e tradizioni. Una delle gioie del viaggio – quando potevamo farlo – era arrivare a conoscere qualcosa di diversi modi di vivere, tradizioni diverse. Ma certamente c’è qualcosa di difficile, almeno secondo me, nell’approvazione acritica di una nozione di multiculturalismo come ideale. Siamo tornati di nuovo al conformismo. Il multiculturalismo propone l’idea che più culture possano vivere fianco a fianco nello stesso spazio. Questa è un’idea interessante e ottimistica. Ma in pratica, il modo in cui questo funziona è l’appiattimento di tutte le tradizioni e culture nella stessa identità (di solito consumistica). Sarebbe sbagliato da parte mia eludere la domanda, ancora più difficile, che riguarda la perdita di tradizioni culturali e identità conseguente all’immigrazione. Naturalmente, sappiamo che l’immigrazione è stata la norma della storia e un grande motore di sviluppo della cultura. Ma riconoscerlo non è per evitare la questione dello sfollamento culturale, delle culture ospitanti che perdono la loro identità, perché le conseguenze della migrazione moderna sono state ignorate o intenzionalmente mal rappresentate. Il dibattito è diventato così polarizzato che la riflessione sull’immigrazione è diventata quasi impossibile. Gli intellettuali universitari hanno portato il dibattito all’estrema sinistra: il bene della ‘diversità’ è diventato semplicemente certezza, senza esplorazione delle sue implicazioni. Per inciso, la ‘diversità’ nella mia esperienza significa esattamente il contrario: lo scopo della maggior parte dei suoi sostenitori è quello di rendere tutti blandamente gli stessi. Non c’è da meravigliarsi che l’estrema destra abbia preso il terreno alternativo. Gli intellettuali, non permettendo domande o dibattiti, hanno creato lo spazio culturale per l’antagonismo violento. Il mio caso, controcorrente, è di poter porre domande e di cercare risposte. E’ straordinariamente difficile riuscire a farlo. E mi preoccupo delle potenziali conseguenze del rifiuto della sinistra di esaminare le proprie premesse”.

 

Si arriva, infine, al tema della post-identità, esito di questo grande oblio. “E’ terrificante per me”, conclude O’Gorman al Foglio. “Certo, le identità cambiano. Lo sappiamo nelle nostre stesse vite. Le mie radici irlandesi sono diventate sempre più importanti, per esempio. E su scala molto più ampia, sappiamo che la maggior parte delle culture sono ibride in modi importanti: l’assorbimento della Grecia da parte di Roma; l’assorbimento di Venezia di molte tradizioni culturali diverse, da Bisanzio all’Austria. Ma non si tratta di post-identità. Si tratta di ciò che in termini di giardinaggio significa ‘innestare’. Ma la cancellazione, il semplice appiattimento di tutte le identità nella stessa forma senza tradizione, senza storia, è un pericolo psichico e culturale. Karl Marx pensava che lo stato ideale dell’essere fosse vivere quando la storia si fosse fermata: quando non ci sarebbe stato più nulla di cui scrivere perché nulla sarebbe cambiato. Dobbiamo riscoprire un accordo collettivo per cui quelle tradizioni sono preziose e l’espressione di un’identità. Si torna a Freud, qui. Il senso di Freud è che ciò che facciamo come esseri umani è cercare di adattarci alla perdita di sicurezza, cercare di gestire il trauma di essere stato bambino, di essere nato. Non sono sicuro che lo stiamo facendo, alla luce dell’osservazione di Freud, dimenticando la sicurezza dei legami con il passato. E’ davvero una forma di morte culturale”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.