Luca Zaia (foto LaPresse)

Modello Zaia

Valerio Valentini

Salvini è la Lombardia di Fontana, ma c’è anche un’altra Lega che il segretario teme e per questo blandisce

Roma. Essendoci ormai abituati, alle sue “svolte” che durano lo spazio che intercorre tra una diretta Facebook e l’altra, stavolta ci vanno tutti coi piedi di piombo. “Solo che stavolta – spiega un colonnello veneto della Lega – c’è uno spettro in più”, a suggerirgli di fare sul serio, di cambiare per non essere cambiato. “Perché Salvini lo sa bene, che Zaia se li è guadagnati sul campo, i gradi di capitano, non sui social. E Matteo è consapevole dell’impressionante crescita di consenso, sia all’interno del movimento e nell’opinione pubblica, di Luca”. Parere di parte, forse. Perché a quelli della Liga non pare vero di potersi riscattare agli occhi degli odiamati cugini lumbàrd, di veder risplendere, nel bel mezzo di un’epidemia in cui Attilio Fontana e la sua squadra stanno dando una prova tutt’altro che impeccabile, il loro modello di governo regionale, meno scintillante ma più pragmatico. E quel modello ha ovviamente un nome e un cognome: Luca Zaia. Non basta questo, certo, a sancire un cambio della guardia. Non basterebbe, meglio, se si trattasse solo del giudizio sulla gestione dell’epidemia.

 

 

E invece il caso vuole che la figura di Zaia, quel suo democristianeria in saòr, poche chiacchiere (e quelle poche non sempre giuste, tra topi cinesi e poeti inesistenti, ma vabbè) e “duri i banchi!”, quel suo volto in fondo rassicurante per essere il volto di un leghista, risulti la più azzeccata anche per la nuova fase che si va aprendo per la Lega: quella, cioè, in cui bisognerà provare a saltare sul fuggevole treno del governissimo nell’attimo esatto in cui lo si vedrà sfrecciare, l’attimo da cogliere che non ripasserà. Ci si era in fondo già preparato, Zaia. Quando aveva fiutato l’aria di ribaltone in Emilia, a febbraio, aveva avvisato i suoi fedelissimi: “Magari non mi ricandido”, aveva detto, allertando la già ministra per l’incompiuta autonomia Erika Stefani a correre al suo posto, visto che lui sperava di approfittare del cataclisma emiliano, e del domino romano che avrebbe innescato, per giocarsi un nuovo ruolo a livello nazionale. Poi è andata com’è andata, e accontentarsi di restare a fare il doge nella sua piccola patria adorata gli era sembrata il migliore dei destini possibili. Chi lo ha visto da vicino al lavoro in queste settimane di pandemia, giura che in fondo è ciò che ha sempre voluto fare: “Il Veneto è il suo regno, chi glielo fa fare ad andarsi a infognare a Roma?”. Chissà. Di certo c’è che Zaia dovrà pure farlo valere, il merito di una gestione della crisi sanitaria al cui confronto quella lombarda è una quintessenza di incoerenze, errori, disastri.

 

 

E forse è anche in virtù di tutto ciò, si diceva, che Salvini ha capito, pare, che bisogna aggiustare la rotta. “Dobbiamo quantomeno giocarcela, la partita”, gli ripetono gli ex ministri, gli ex sottosegretari che lo esortano a fregarsene dell’ossessione della Meloni, e a lavorare semmai al progetto di governissimo. “Solo con Draghi, si convince”, dicono i suoi confessori. Che aggiungono, a mo’ di corollario: “Ma con Draghi si convince davvero”. E d’altronde è stato proprio Salvini a invocarlo come salvatore della patria, in Senato, il 26 marzo scorso. E’ durata meno di una giornata: il mattino dopo già era tornato a sbraitare contro l’Euro e a vagheggiare l’Italexit. “Ma se in quelle dodici ore qualcuno nel Pd si fosse mosso…”, si mordono la lingua i leghisti. “Di certo noi non ci stiamo a fare l’unità nazionale con Conte. Con lui, mai nella vita”.

 

E però, quella strada bisogna percorrerla. Gli ripetono in tanti a Salvini. Non sul Mes, certo: su quello è difficile ipotizzare qualsiasi convergenza. Ma con la nomina di Carlo Bonomi a capo di Confindustria – nomina ben accolta da Giorgetti – si apre un’altra prospettiva, per Salvini: provare a costruire un’unità d’intenti del fronte sviluppista, giocare un ruolo in quel “partito del pil” che avrà tanta voce in capitolo nella famigerata “fase due”, quando mai dovesse iniziare davvero. Anche così si spiega la contro-capriola, un po’ scomposta, che Salvini ha ordinato ai suoi in Lombardia: “Riaprire tutto”. Anche perché nel frattempo, con quei suoi modi un po’ così, con le sue buone relazioni coltivate nell’ombra, Giorgetti – dicono nel Pd – la sua piccola “unità nzionale” l’ha ottenuta, e un posto al tavolo delle nomine, sia pure virtuale, sia pure striminzito, l’ha ottenuto. Più importante, almeno nelle dinamiche interne a Via Bellerio, è invece il posto che ha ottenuto Roberto Calderoli, che della nuova Lega per Salvini premier sarà responsabile organizzativo che finora è stato del super-salviniano Alessandro Panza. E’ andato a Calderoli, quell’incarico, e non ai vari pretendenti del nuovo corso, quelli cresciuti all’ombra della Bestia. E anche questo, agli occhi di chi spera nella “svolta”, appare un segnale.

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