Giancarlo Giorgetti (foto LaPresse)

Perché Giorgetti ha un piano per lasciare Palazzo Chigi e andare in Europa

Valerio Valentini

Il sottosegretario chiede una svolta di governo a Salvini e intanto prepara l’opzione da commissario europeo

Roma. L’idea, al momento, è ancora solo abbozzata, insieme alle altre non poche vagliate dal diretto interessato in queste tribolate settimane di agonia gialloverde; e infatti è nella forma di possibilità che viene riferita da uomini di governo della Lega. I quali, interrogati sul futuro di Giancarlo Giorgetti, da qualche giorno cominciano a sussurrare: “Magari se ne va a Bruxelles”. Ci starebbe davvero pensando, Giorgetti: pensare a se stesso, cioè, come futuro commissario europeo, forse incoraggiato anche dal repentino ripensamento di Matteo Salvini che, nel figurarsi il prossimo rappresentate italiano all’interno della Commissione che verrà, ha smesso di parlare di un responsabile all’Agricoltura (come faceva fino a qualche mese fa, evidentemente alludendo a Luca Zaia), e ha cominciato a rivendicare “un commissario all’Economia o all’Industria”, insomma “qualcuno che si occupi dei quattrini e del lavoro degli italiani”. Ed è qui, dunque, che il progetto del sottosegretario alla presidenza si sovrappone alle suggestioni di alcuni degli uomini più influenti del Carroccio: “Chi, meglio di Giancarlo? Per noi sarebbe l’ideale”. E certo l’ideale, o qualcosa di comunque assai simile a questo, lo sarebbe anche per Giorgetti, che da tempo ha raggiunto il limite massimo di sopportazione. “Non ne può più di questo stillicidio quotidiano”, dice chi lo vede, tutti i giorni, accogliere al primo piano di Palazzo Chigi ministri e sottosegretari della Lega – quelli che ancora riceve, perlomeno – ormai estenuati a loro volta dalle follie del grilloleghismo. E così, stanco di suggerire invano a Salvini la via del divorzio immediato col M5s, coi compagni di partito più fidati s’è già sfogato, col tono più ultimativo che desolato: “Se dopo le europee non cambia tutto, io faccio un passo indietro”. 

 

Potrebbe invece finire per farne uno in avanti, in realtà, diventando in buona sostanza il referente del governo nella tana del lupo, in quella commissione descritta per mesi come un covo di turpi burocrati. Una soluzione che a qualcuno, non solo dentro alla Lega, apparirà un po’ come un invito all’ammutinamento, la fuga generale alla vigilia di una insostenibile legge di Bilancio. “Se Giancarlo va a Bruxelles, vuol dire che si vota”, dice chi lo conosce bene, e già immagina la deflagrazione del caos che seguirebbe all’uscita da Palazzo Chigi di Giorgetti. Per il quale, comunque, tutto sembra ormai preferibile a “questo delirio”, che è l’espressione spesso usata dal vice di Salvini per riferirsi al pandemonio di governo che lo vede sempre più riluttante protagonista. Dopo la guerriglia interna al ministero della Difesa, l’episodio che pare abbia scatenato la sua rabbia – “la goccia che fa traboccare il vaso della sua pazienza”, riferisce chi gli sta vicino – è stato quello relativo a Federico Arata, il figlio di quel Paolo Arata imprenditore che avrebbe chiesto al sottosegretario Armando Siri alcuni emendamenti ad hoc sull’eolico. “E’ venuto fuori che era un mio uomo, questo Federico Arata”, s’è sfogato Giorgetti, incredulo di fronte alle richieste di chiarimento pretese dal M5s, quando in verità a elogiare le qualità del giovane scalpitante bancario erano stati altri, nella Lega (e non a caso Salvini s’è poi affrettato a rivendicare, indirettamente, l’assunzione di Arata jr. al Dipartimento per la programmazione economica di Palazzo Chigi). Un segnale di come ormai, anche nell’ordinaria amministrazione, la situazione sia fuori controllo.

 

Ed ecco che allora la via per Bruxelles si staglia nell’orizzonte incerto del prossimo autunno come una exit strategy perfetta, per Giorgetti. “I ragionamenti su questo sono ancora allo stato embrionale”, mettono le mani avanti nella Lega, dove però non negano che sarà ferma intenzione di Salvini pretendere di indicare il nome del commissario italiano, in virtù di un risultato – quello del voto del 26 maggio – che sembra dovere essere inequivocabile. Certo, il vicesegretario Lorenzo Fontana, non ha mai fatto mistero di auspicare per sé un’investitura europea, insoddisfatto com’è, sin dall’inizio, del suo incarico al ministero della Famiglia. Ma è indubbio che, dalle parti di Bruxelles, il nome di Giorgetti risulta di gran lunga più rassicurante rispetto a qualsiasi altro che possa provenire dalla Lega, e forse l’unico profilo del sovranismo italiano che, anche in virtù delle sue buone entrature con le varie cancellerie europee, possa superare il vaglio degli altri governi e del Parlamento di Bruxelles. D’altronde, quando a Palazzo Chigi c’è da chiamare Mario Draghi, di solito è Giorgetti a intervenire.