Il selfie di Matteo Salvini a Pianella in provincia di Pescara (Immagini prese da Twitter)

Se la campagna elettorale in Abruzzo diventa il festival del campanilismo

Valerio Valentini

Gli stereotipi sul buon selvaggio appenninico come emblema della cattiva coscienza del grilloleghismo

Roma. La realtà, da lunedì, arriverà a fare a brandelli le promesse accumulate, a seppellire l’eco del frastuono. In una terra dov’è forte, scriveva Flaiano, “il sentimento che tutto è vanità, ed è quindi inutile portare a termine le cose”, anche queste sgangherate settimane di comizi e dirette Facebook macereranno presto in una quotidianità di nuovo marginale, ignorata.

 

Prima, forse, ci sarà tempo per l’ultima abbuffata di arrosticini fatta a favore di telecamera, l’ultima litania di banalità sulla “regione verde d’Europa che riscopre le sue radici”, sulla bellezza del vivere in una regione che avrà pure un pil pro capite sempre più meridionale, però vuoi mettere “la bellezza di poter pranzare in un rifugio di montagna ad Aremogna e fare l’aperitivo in spiaggia a Pescara tre ore dopo” (cit. Di Maio). E però, ancora una volta, l’Abruzzo avrà perso l’occasione per affrancarsi dal gravame dei suoi stereotipi, immancabilmente rievocati in un atto – in molti atti – di presunto ossequio delle tradizioni (e non sorprende che tre su quattro dei candidati in corsa abbiano indicato il loro scrittore preferito in D’Annunzio, quest’imbonitore all’origine di quasi tutti i cliché sulla sua terra).

 

E così in questo festival di banalità campanilistiche, col sovranismo grilloleghista surrogato in un melenso identitarismo da piccola patria, ecco che il non essere abruzzese, il non sapere cantare all’impronta “Cicirinella teneva teneva” veniva rinfacciato al meloniano Marco Marsilio come evidenza della sua inadeguatezza al ruolo di aspirante governatore. E lui, anziché ridicolizzarle, a sua volta legittimava queste accuse affannandosi a elogiare le virtù delle “pallotte cacio e ova” e a rivendicare la nascita dei suoi genitori a Tocco da Casauria come patente di presentabilità, inseguendo la grillina Sara Marcozzi che, come un’agente di promozione turistica, girava i suoi spot elettorali tra Rocca Calascio e Punta Aderci, con la stessa ansia di sublime dei giapponesi che a Ferragosto mangiano la carbonara e bevono il cappuccino alle sei di pomeriggio a piazza San Marco. E insomma l’unico candidato che si sottraeva a questa sbracatezza, Giovanni Legnini, rischiava di apparire perfino anomalo.

 

Matteo Salvini, che questa sfida in Abruzzo l’ha sfruttata col solo obiettivo di monopolizzare il centrodestra, ha recitato appieno la sua parte: il panino con la porchetta a Campli, la maglia giallorossa a Giulianova (con la squadra locale costretta a prendere le distanze), sempre pronto a esaltare quella autocompiaciuta grettezza montanara, quell’odioso mito della bonne sauvagerie abruzzese che in altri tempi, da secessionista padano, avrebbe denunciato – non del tutto a torto – come retaggio della peggiore arretratezza terrona. La Marcozzi, invece, si ritrovava a fare da guida ai ministri che, di volta in volta, lanciavano promesse di circostanza davanti ai “monumenti della nostra splendida regione” o ai “quartieri difficili delle nostre belle città”.

 Una foto pubblicata da Sara Marcozzi, candidata del M5s alle regionali in Abruzzo 


 

E allora la Grillo garantiva impegni nel piano di rientro della Sanità, ma anche la riapertura di punti nascita in ogni dove; e Bonafede faceva flash mob contro la soppressione di tribunali di cui il suo stesso dicastero raccomanda la chiusura. E forse sarà stato anche per questo continuo andirivieni di membri del governo che il M5s ha scoperto che le infrastrutture servono, che l’Abruzzo è tagliato fuori dall’alta velocità, che non di sola pastorizia e tutela delle aree verdi un milione e trecentomila persone, per quanto – ovviamente – “forti e gentili”, possono vivere nel 2019.

 

I cantieri all’Aquila sono di nuovo fermi, le frazioni del circondario vanno spopolandosi, eppure il ricordo delle sciagure era funzionale a marcare la differenza di quelli di adesso rispetto a quelli di prima: ed ecco allora che lo zelo sulla ricostruzione si concretizzava in una sfida a chi, tra grillini e leghisti, presentava l’emendamento giusto al decreto in discussione in Parlamento appena in tempo per il secondo anniversario della strage di Rigopiano, così da meritarsi le strette di mano dei famigliari delle vittime.

 

O sennò, ma andava bene comunque, bastava fare – come ha fatto la Meloni – una camminata tra i progetti C.A.S.E. dell’Aquila e poi montare un video che riprendeva un rapace in volo. Il resto, è stato tutta una narrazione macchiettistica delle tare degli abruzzesi, una celebrazione di una Arcadia mai esistita. E così la Marcozzi, lei sempre impeccabile nel suo tailleur nero e nel suo sorriso scarlatto, ha continuato fino all’ultimo minuto utile a farsi riprendere accanto a Minuccia, vecchia sdentata di centodue anni, “una donna con la D maiuscola come tutte le nostre nonnine”, e Marsilio, nel frattempo, in una rivelatrice ammissione di distacco dalla realtà, riusciva a dire di voler “far diventare l’Abruzzo la terra dei sogni”. Domenica è tutto finito.

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