Giancarlo Giorgetti ospite di Porta a Porta (foto LaPresse)

La Lega, il peso del consenso e l'ansia di Giorgetti

Valerio Valentini

L’allarme del sottosegretario alla presidenza del Consiglio: “Non abbiamo classe dirigente”. E sulle regionali Salvini preferisce fare un passo indietro

Roma. Siccome è un uomo che non ama troppo l’astrattezza, Giancarlo Giorgetti ha preferito fare nome e cognome, un paio di settimane fa, quando si è sentito chiedere un parere sullo stato di salute della Lega: “Basta vedere a chi abbiamo dovuto chiedere di fare da relatrice sulla manovra alla Camera”. Ce l’aveva con Silvana Comaroli, Giorgetti: ma non con lei come persona, dal momento che la cinquantunenne cremonese ha comunque alle spalle già due legislature concluse, una da senatrice e una da deputata, oltreché una laurea in Economia e commercio, e dunque a buon diritto parlava in Aula a nome del suo gruppo in difesa della legge di Bilancio (che poi del resto sarebbe stata rivista e corretta a Bruxelles). Ce l’aveva più che altro con la supposta classe dirigente del Carroccio, e con l’euforia da sondaggio che inebria tanti dei suoi esponenti.

  

Il rischio che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio vede, e insieme a lui parecchi della vecchia guardia come Roberto Calderoli, è quello del gigantismo, di un partito cioè che potrebbe cedere sotto il peso del suo stesso, monumentale ma fragilissimo, consenso. “Quelli davvero affidabili – ha raccontato Giorgetti – li abbiamo spesi tutti nella squadra di governo, su qualche giovane promettente abbiamo scommesso per la presidenza delle Commissioni, per il resto, eccoci qua”. E forse perfino troppo roseo è il bilancio stilato dallo stratega di Matteo Salvini, se è vero che perfino nei confronti di una persona su cui Giorgetti e Salvini puntavano moltissimo, e cioè quel Dario Galli messo a presidio del Mise come vice di Luigi Di Maio, a Palazzo Chigi e al Viminale cominciano a diffondersi malumori; per non parlare poi del fatto che, più in generale, tra gli esponenti leghisti dell’esecutivo c’è chi si lamenta della scarsa dedizione alla causa dei suoi colleghi di partito (“Qua siamo in sette o otto a reggere la baracca”), quindi figurarsi le pattuglie parlamentari, passate dai 33 membri nel 2013 ai 183 attuali e composte in gran parte da neofiti del Palazzo, o svogliati o impreparati alle sue insidie.

   

E insomma in parte è anche in virtù di questa preoccupazione che alla fine, in Abruzzo, Salvini ha rinunciato alla tentazione dello sgarbo nei confronti degli alleati del centrodestra, e ha dato il via libera alla candidatura di Marco Marsilio, senatore romano di FdI, per le regionali, rispettando l’accordo stretto mesi fa con Berlusconi e la Meloni. Non è stata, fino all’ultimo, una decisione scontata: e non è stato facile soprattutto per il segretario abruzzese del Carroccio, Giuseppe Bellachioma, accettare lo smacco. “Se Matteo decide per Marsilio, io obbedisco”, diceva nelle settimane passate. “Da parte nostra nessun veto”, ribadiva nelle dichiarazioni ufficiali. Ma poi mobilitava le truppe sul territorio, agitava lo scontro interno (“Io nella confusione prospero”), smaniava per l’eccessivo attendismo del capo (“Qua si rischia di non riuscire a chiudere le liste”), azzardava perfino citazioni allusive di Vujadin Boškov (“Partita finisce quando arbitro fischia”) per far sapere ai suoi che non aveva affatto voglia di desistere. “La Marcozzi va già forte, fa già un sacco di tv”, gli segnalavano, allarmati, i suoi colleghi alla Camera. E lui, al sentirsi insidiato dalla candidata grillina alle regionali, reagiva col fare del guascone: “Io quella me la sbrano, se Matteo mi dà il via libera. Per starmi dietro dovrà fare la bava, io in campagna elettorale divento un animale: per trenta giorni non mangio, non bevo e non dormo”. E però, se l’ipotesi della spallata Salvini l’ha scartata, è stato anche perché di Bellachioma, implacabile animale da consenso, forse non troppo si fida, come uomo di governo.